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Ebola, ostetrica lombarda in quarantena: "Sto bene, lascio il cuore in Africa"

24 ottobre 2014 | 19.15
LETTURA: 5 minuti

La 38enne, insieme a Paolo Setti Carraro, è uno dei due medici rientrati dalla Sierra Leone il 16 ottobre e messi in 'isolamento precauzionale: "Ci resterò fino al 4 novembre". E sottolinea: "Non ho alcun sintomo"

(Fermo immagine da un video di Medici senza Frontiere)
(Fermo immagine da un video di Medici senza Frontiere)

"In Sierra Leone si muore di Ebola anche indirettamente. Non è solo il virus a uccidere, a volte è la paura del contagio che tiene lontane mamme e bambini dagli ospedali. Arrivano in fin di vita da noi, perché hanno aspettato fino all'ultimo. E sono altre malattie a dare il colpo di grazia. Morti che passano sotto silenzio mentre un caso di Ebola scatena il clamore". Chiara Maretti, 38 anni, professione ostetrica, è uno dei due medici lombardi rientrati dalla Sierra Leone il 16 ottobre e messi in 'isolamento precauzionale'. Resterà chiusa in casa fino al 4 novembre, quando scadranno i 21 giorni dall'ultimo contatto potenzialmente a rischio (finestra massima di incubazione del virus).

"Una misura di estrema cautela", precisa all'Adnkronos Salute. Sia lei che Paolo Setti Carraro, il chirurgo con cui ha condiviso la sua avventura africana (sono partiti destinazione Pujehun con l'Ong 'Cuamm medici con l'Africa'), non hanno infatti avuto "contatti con malati di Ebola in fase attiva, ma con persone che forse avrebbero potuto sviluppare la malattia". Ma la loro storia, spiega, è emblematica della psicosi che scatena il virus: "In alcuni casi mi sono sentita definire erroneamente caso sospetto e la cosa mi ha stupito. Se così fosse sarei in ospedale. Mentre io sto bene, non ho alcun sintomo, mai avuto neanche una linea di febbre durante la mia permanenza in Sierra Leone. Come adesso. E il mio cuore l'ho lasciato in Africa".

Maretti è partita da Freetown, ha fatto scalo a Casablanca per poi atterrare a Malpensa. "A ogni tappa mi hanno misurato la temperatura, ho compilato tutti i questionari di rito, e all'arrivo a Malpensa sono stati molto scrupolosi: sono venuti a prenderci all'aereo, il medico dell'aeroporto è stato molto gentile, ci hanno portato nell'area sanitaria dove abbiamo compilato il modulo del ministero della Salute e misurato di nuovo la temperatura".

I due camici bianchi sono stati catalogati a 'rischio intermedio'. "Ci hanno detto di stare a casa in via precauzionale i 21 giorni canonici. Potremmo in linea teorica stare sotto lo stesso tetto con adulti. Ma anche il mio collega è da solo in una casa nel milanese. Ha una bambina, una famiglia, e ha scelto comunque di isolarsi completamente, per estrema cautela e una forma di tutela sociale". Dall'Asl, racconta Maretti, "mi chiamano al telefono, alla mattina e alla sera per chiedermi come sto. Misuro costantemente la temperatura e la comunico. Io e Paolo ci sentiamo sempre e scherziamo sulla nostra 'solitudine forzata'".

L'ostetrica, una laurea all'università dell'Insubria di Varese (la sua città), conosce l'Africa. E' stata anche ad Haiti ai tempi del terremoto. Ed è la prima volta che si trova in un Paese con epidemia di Ebola in corso. "Ma io faccio nascere bambini, mi occupo delle mamme e dei loro figli, faccio formazione alle ostetriche locali. Un'esperienza incredibile che ti segna". Da quando è tornata, racconta, "tutti si sono presi cura di me, anche se a distanza. Ricevo telefonate, la voglia di raccontare è tanta. Sono super coccolata, mi lasciano cioccolatini davanti alla porta e gli amici mi salutano dalla finestra. Io leggo, mangio e dormo. Tutto quello che non riuscivo a fare in Sierra Leone".

Ma il pensiero è in Africa: "Per i primi giorni ho dormito con il telefono della reperibilità a portata di mano, come se dovessi ricevere una chiamata da un momento all'altro. Ho il magone se penso ai miei colleghi che sono lì a lavorare in condizioni difficili, sotto stress. Penso agli ospedali semi deserti per la paura del virus, alle mamme che piuttosto muoiono in casa di parto". L'ostetrica italiana era nell'ospedale governativo, nell'edificio che ospita il reparto materno-infantile. La tenda dove vengono assistiti i casi sospetti di Ebola in attesa di conferma è a circa 400 metri, in un'altra struttura dell'ospedale. Nelle sale parto arrivano casi complessi. "Vedi donne alle prese con travagli prolungati, malposizioni fetali, emorragie post partum, pre-eclampsie, assisti a cesarei per rotture d'utero - racconta - Cose che in Italia vengono diagnosticate in tempo, prevenendo le estreme conseguenze. In Africa invece si muore per un nonnulla. E pensi che sia assurdo che nel 2014 una donna perda la vita nel suo villaggio perché mancano i farmaci per curare un'emorragia. Pensi sia assurdo vedere bimbi con malarie cerebrali bruttissime, in coma, con anemie severe, convulsioni". Tanti i casi, stagionali nel periodo delle piogge. Chiara vorrebbe tornare. "Si creano dei rapporti lavorando gomito a gomito con queste persone. Loro restano lì, in 'trincea'. E tu che sei bianco puoi salire su un aereo e in 24 ore sei a casa, al sicuro". Fuori dall'inferno. "Una cosa difficile da accettare".

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