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Papa: da Wojtyla a Bergoglio, quando il Pontefice si affida al dialetto

21 marzo 2015 | 12.28
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Francesco parla cinque lingue ma non disdegna il vernacolo per comunicare con i fedeli. Giovanni Paolo II aprì la strada con salutando i preti della Capitale con l'indimenticabile 'semo romani'

 AFP PHOTO / FILIPPO MONTEFORTE - AFP
AFP PHOTO / FILIPPO MONTEFORTE - AFP

Si dice che conosca e parli cinque lingue ma per collegarsi ai suoi interlocutori non disdegna il dialetto. Papa Francesco anche oggi non si è rifugiato dietro al cerimoniale e ha mostrato la sua versione 'pop'. Nel corso della visita a Napoli, si è lasciato contagiare dalla spontaneità della gente di Scampia, che ha benedetto ricorrendo al dialetto. "Benedico di cuore tutti voi - ha detto Bergoglio - le vostre famiglie e questo vostro quartiere. E voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. ‘A Maronna v’accumpagne'.

Subito dopo l'elezione al soglio pontificio, scavando nell'albero genealogico, si venne a sapere che padre Bergoglio aveva le radici in Piemonte, nella piccola frazione di Portacomaro Stazione, provincia di Asti, mentre i nonni provenivano da Cocconato, un paese vicino a Chivasso. Origini che Bergoglio non ha reciso. Ne è stata testimone Emma Bonino, quando, nel giugno del 2013, alla guida della Farnesina si presentò in visita ufficiale in Vaticano e papa Bergoglio, dopo un'energica stretta di mano, la salutò alla maniera dei piemontesi: "Cerea, signor ministro". Un suono familiare per Emma Bonino, che essendo nata a Bra in provincia di Cuneo, non fece alcuna fatica a capire.

In napoletano a Napoli, in piemontese con la ministra sua conterranea e in abruzzese con i cittadini de l'Aquila, che ha di recente visitato nel quinto anniversario del rovinoso terremoto del 2009. In un incontro, emotivamente molto carico con gli aquilani, in una città ancora profondamente ferita dal sisma, Bergoglio li incoraggiò e li esortò a non abbattersi dicendo: "Jemo ’nnanzi, andiamo avanti".

L'esigenza di entrare in contatto empaticamente con i propri interlocutori attraverso il dialetto, ha del resto un precedente illustre che, a suo modo, fa storia. Quello di Giovanni Paolo II che nel 2004, incontrando in Vaticano i parroci romani, salutò dicendo loro: "damose da fa' e volemose bbene", aggiungendo poi con un pizzico di rammarico: "Non ho imparato il romanesco, vuol dire che non sono buon vescovo di Roma".

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