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Ambrogino d'oro al cuoco Giacomo Bulleri, ai suoi tavoli la storia

05 dicembre 2015 | 15.11
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Ambrogino d'oro al cuoco Giacomo Bulleri, ai suoi tavoli la storia

"La cucina è cambiata molto. Un tempo si mangiava piatti tipici, all'italiana, preparati con tre ore di cottura. Ora si mangia così, piatti espressi, leggeri, senz'arte ne parte". Si chiama Giacomo Bulleri ma per tutti è solo "Giacomo". Arrivato sotto il 'cielo della Madonnina' negli anni ‘50, in 60 anni di lavoro ha creato il Gruppo Giacomo Milano, che oggi ospita e ristora i potenti della terra, politici, imprenditori, attori, star dello spettacolo nei Centri dell’Eccellenza Culturale di Milano: da Palazzo Reale, con le sue Mostre, all’Arengario, al Museo del Novecento, con il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. Nel corso degli anni ha formato oltre 1000 dipendenti che con la storica rivista 'Critica Sociale' lo hanno candidato al prestigioso riconoscimento che la città di Milano gli consegnerà il 7 dicembre: l'Ambrogino d'oro.

Nato nel 1925 a Collodi in Toscana, Giacomo cresce in campagna e trascorre l'adolescenza tra le feste nell'aia, i lavori dei campi e la cucina, cuore e fulcro della casa. Con molti sacrifici i genitori lo mandano a studiare a Torino, dove Giacomo impatta con la realtà cittadina. Proprio a Torino, durante la guerra, impara il mestiere del cuoco, tra mille difficoltà, sperimentando i suoi piatti tra un bombardamento e l'altro. Poi, nel '56 arriva nel capoluogo lombardo.

"All'inizio -racconta all'Adnkronos- a Milano non mi trovavo. Ero abituato a Torino, una città più piccola, più raccolta. Per otto mesi non ho fatto nulla, studiavo la città". Ma poi "Milano mi ha realizzato. Mi ha insegnato che nella vita ci sono dei passaggi, se uno li sa prendere, se sa cogliere il momento giusto, allora le cose funzionano. E poi Milano mi ha insegnato che bisogna credere nelle cose, fondamentale. Aveva ragione: le cose nelle quali ho creduto -piatti, lavori, amori- sono sempre andate bene. Perchè quando uno ci crede è già alla metà del lavoro. E a Milano sono diventato Giacomo: prima, per tutti, ero solo Giacomino". Riflesioni che Giacomo ha anche affidato nelle pagine di un libro che ha intitolato "Ricette di Vita".

Dopo un paio di locali che alternavano biliardi alla cucina, e un terzo 'esperimento' con un albergo in Piazza Maimonti, Giacomo apre il suo primo 'successo': la "Trattoria da Giacomo” accanto alla Camera del Lavoro che resterà aperta per 33 anni, prima del suo trasferimento nella sede attuale di via Sottocorno. In poco tempo diventa il ritrovo ufficiale del sindacato milanese e non solo. La specialità della casa era il risotto alla milanese.

"Mangiavano pesante gli amici del sindacato: ossobuco, arrosto, capretto a volontà e il bolliti. Poi gli arrosti. Io ero il 're' degli arrosti, tutti. Erano uomini di un’altra tempra, uomini di grande coraggio e valore. Questa vicinanza ai grandi uomini del lavoro mi ha segnato in maniera indelebile per sempre. Grazie a loro ho imparato ad apprezzare e rispettare ancor di più il lavoro e il lavoratore, vero capitale di ogni impresa. Durante questi anni ho avuto più di mille dipendenti e con ognuno di loro ho ancora un rapporto speciale, fatto di reciproco rispetto e amicizia" ricorda.

Prima di tutti Giacomo tiene a ricordare il grande Giuseppe Di Vittorio, “un uomo distinto e per bene, un fuoriclasse”, dice. Da Giacomo vanno Giancarlo Pajetta, Luigi Longo, Umberto Terracini. Quasi tutti gli uomini e le donne che hanno fatto la storia della "Camera del Lavoro" di Milano sono passati dalla “Trattoria di Giacomo": Luciano Lama “un vero sindacalista, nato operaio”. Giorgio Benvenuto, “un intellettuale, molto fine”. E poi Lucio De Carlini “uomo di grande cultura”, fino a Antonio Pizzinato “da ammirare per la determinazione di chi ha lavorato in fabbrica come lui”. E infine Bonacini, Ghezzi, Lesca, Camusso. “Mangiavano tutti assieme, affamati. Io facevo certe bistecche grosse così! Molti venivano da Roma per riunioni o manifestazioni sindacali. Dovevano sostenersi”.

La trattoria di via Donizzetti è solo il primo di una lunga serie, che oggi domina il mondo della ristorazione milanese. Da allora, Giacomo non ha più smesso di sperimentare, di innovarsi, di ricordare a tutti l’importanza della cucina tradizionale italiana, delle proprie radici, del rispetto degli ingredienti e dei sapori. Dopo 33 anni il trasferimento in via Pasquale Sottocorno. Lì la svolta verso il pubblico di artisti e imprenditori che gli hanno dato la prima, più vasta, notorietà e non solo a Milano. Dopo sono arrivati il "Giacomo Bistrot", la "Tabaccheria" e la pasticceria.

Da Giacomo sono passati tutti. Ci sono andati i cantanti del Teatro alla Scala: Del Monaco, la Callas, Di Stefano. Direttori d’orchestra come Riccardo Muti e Claudio Abbado. Gente del cinema e dello spettacolo come Carlo Ponti e Sofia Loren, Spielberg, De Niro; cantanti come Bono Vox e Mike Jagger. Non è mancata la moda: Prada, Armani, Calvin Klein. Poi, nel gennaio 2011 l'apertura di “Giacomo Arengario” sopra il Museo del Novecento. "Ironia della sorte - commenta Giacomo - ancora una volta il tema del lavoro e dei lavoratori mi accompagna. Ma non è un caso. Il ristorante è proprio sopra al dipinto "Il Quarto Stato" di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Un sacro graal. Un simbolo".

L' "Arengario" è oggi una delle mete gourmet preferite dai turisti: la vista dal ristorante sul Duomo e sulla Piazza è suggestiva, emozionante. Sembra di avere il salotto più importante di Milano ai piedi. All'Arengario ha pranzato di recente Michelle Obama in visita all'Expo, accompagnata dalle figlie "ragazzine bellissime -dice Giacomo-scherzose. Io dico che Obama ha una moglie e due figlie meravigliose". Già un tempo una famiglia presidenziale americana era frequentemente ospite: i Kennedy, da Jacqueline al figlio J.J K . "Mi ricordo che sono arrivati, erano in sei e io senza vederli ho pensato 'Questi qui sono Kennedy' perchè si assomigliavano, tutti, come fatti con lo stampino. Erano i nipoti. Poi ho servito Jacqueline Kennedy, di cui ho un ricordo bellissimo".

Cuoco rimasto legato alla cucina della tradizione, Giacomo rifiuta l’invito a Masterchef: “Non si fa la cucina in televisione, è assurda. E' solo immagine e basta. Io ho sempre cucinato piatti da mangiare, per sentire i sapori. Io sono per il gusto, i sapori. Oggi fanno i piatti lavorati. Una volta non si lavoravano i piatti però si facevano i piatti, Io sono un cuoco non uno chef che fanno i piatti lavorati ma non per mangiare, per la televisione".

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