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Yara

Chi è Bossetti, il muratore detto il 'Favola'

13 ottobre 2018 | 10.53
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(Foto Fotogramma)
(Foto Fotogramma)

Anche quella sua inclinazione a mentire, che gli è valso il soprannome 'Favola', ha pesato sulla decisione dei giudici di condannare Massimo Bossetti all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio. A inchiodare il muratore di Mapello, l'uomo dai mille volti che si è sempre dichiarato innocente, il Dna che coincide con quello trovato sugli slip e sui leggins della 13enne uccisa a Brembate il 26 novembre 2010.

Padre di tre figli, Bossetti si definiva un uomo normale con una vita ripetitiva, tutto lavoro e famiglia. Così lo descrivevano, all'indomani del fermo per il delitto, anche i i vicini di casa: ''Un bravo ragazzo, un muratore che conduceva una vita tranquilla''. I colleghi invece ricordavano la sua spudorata inclinazione a mentire e quel nomignolo, il 'Favola', che gli aveva dato proprio in virtù della sua propensione a dire bugie. E' stato nel corso delle indagini che il muratore ha appreso, sulla base del Dna, di non essere figlio di Giuseppe Bossetti, come aveva sempre creduto, ma dell'autista Giuseppe Guerinoni morto nel 1999, scoprendo così un segreto rimasto tale per 44 anni.

In carcere è finito al centro di un caso per le lettere 'hot' scambiate con un'altra detenuta, Gina. "Una corrispondenza tra due persone adulte che non si sono mai viste fra loro", ha precisato la difesa del muratore.

Bossetti è stato visto piangere durante il processo di primo grado quando si parlava dei suoi affetti. "Amore mio perdonami se ti sto facendo tribolare", scriveva alla moglie Marita Comi, che crede nella sua innocenza, in una lunga lettera dal carcere in cui raccontava di essere giudicato in prigione come un "ammazza-bambini". "Eravamo proprio una bella famiglia, una famiglia unita e ora ce l'hanno rovinata", scriveva ancora alla moglie.

Un ritratto però che poco combacia con il profilo di feroce assassino dall'"animo malvagio" tracciato dai giudici di Bergamo nelle motivazioni della condanna all'ergastolo. Una condanna confermata anche dalla Cassazione.

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