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A.Saudita: stretta sugli attivisti, pene esemplari come quelle dell'Is

21 gennaio 2015 | 14.46
LETTURA: 6 minuti

Il caso Badawi ha mobilitato l'opinione pubblica mondiale, ma molti come lui sono incarcerati e frustati per aver espresso le loro idee. Nel paese si eseguono decapitazioni, taglio degli arti e lapidazioni, proprio come fanno i jihadisti. Così il governo terrorizzato dalla Primavera Araba spinge i suoi giovani nella braccia del 'califfo'.

 - Da Twitter: Middle East Eye
- Da Twitter: Middle East Eye

Il caso dell'attivista saudita Raif Badawi, condannato a 10 anni di carcere e a mille frustate, che tanto ha scosso l'opinione pubblica mondiale, è solo uno degli innumerevoli casi di attivisti puniti con durezza nel regno del Golfo. Secondo molte organizzazioni per i diritti umani, la campagna del governo saudita contro attivisti, blogger o chiunque sfidi la leadership politica e religiosa del paese sta andando intensificandosi. E alcune analisi dimostrano che le sanzioni inflitte dalle autorità di Riad equivalgono in tutto a quelle che lo Stato islamico (Is) esegue nel suo 'califfato'.

"Il governo vuole far arrivare al popolo un messaggio: se pensate come loro, se parlate come loro, passerete tutta la vostra vita in carcere - ha dichiarato Samar Badawi, sorella di Raif, anche lei attivista per i diritti umani e moglie di un altro attivista, Waleed Abulkhair, in carcere da aprile 2014 - Vuole che le pene inflitte a questa gente siano da esempio".

Nel 2012 Samar Badawi è stata insignita dell'International Women of Courage Award da parte del Dipartimento di Stato americano. Suo marito è finito in prigione per aver detto che le autorità religiose del paese hanno troppa influenza. Per questo è stato condannato a 10 anni di carcere e 250.000 dollari di multa. La scorsa settimana la sua condanna è stata elevata a 15 anni perché si è rifiutato di chiedere perdono e di promettere che non avrebbe più manifestato il suo dissenso.

Decapitazioni, taglio degli arti e lapidazione proprio come fa lo Stato Islamico

In Arabia Saudita si applica un'interpretazione molto rigorosa della sharia, il diritto islamico, e dall'inizio dell'anno almeno 10 persone sono già state decapitate. Secondo un'analisi del sito Middle East Eye, le punizioni che l'Arabia Saudita infligge ai suoi cittadini (frustate, decapitazione, lapidazione, taglio delle mani o dei piedi e altre) equivalgono quasi del tutto a quelle applicate dallo Stato islamico (Is) nel suo autoproclamato califfato.

Ma nonostante la grande risonanza che i casi di Basawi e di altri attivisti hanno avuto negli Stati Uniti, Washington è sempre molto cauta nel criticare Riad, suo secondo fornitore di petrolio dopo il Canada, nonché membro della coalizione internazionale impegnata in raid aerei contro l'Is in Iraq e Siria. Di recente, tuttavia, a livello internazionale c'è stata una grande mobilitazioni. Proteste sono state organizzate di fronte alle ambasciate saudite negli Usa, in Canada e in molti paesi europei.

Un gruppo bipartisan di otto senatori americani ha scritto a re Abdallah venerdì scorso, chiedendo il rilascio di Badawi, definendo la fustigazione come una pratica "barbara" e come "qualcosa che nessun essere umano dovrebbe sperimentare per aver espresso in modo pacifico le sue idee sulla politica e sulla religione". Condanne sono arrivate anche dall'Onu, ma una fonte governativa di Riad, che ha parlato a condizione di anonimato, ha affermato di non capire lo scalpore che la condanna alle frustate produce in Occidente.

Governo 'terrorizzato' da effetti Primavera araba

"Sono una punizione autorizzata dall'Islam - ha detto - Se un sistema giudiziario si basa sulla sharia, non può non prevedere queste pene. E' quello che succede anche in Iran e in Afghanistan, e nessuno dice niente". Il 31enne Badawi ha subito le prime 50 frustate il 9 gennaio, in una piazza di fronte alla moschea di Gedda, dopo la preghiera del venerdì. Un video amatoriale postato su YouTube mostra la scena, durata quasi 10 minuti. Dovrà subire 50 frustate ogni venerdì, per altre 19 settimane.

"E' una situazione orrenda che non deve essere accettata - ha detto sua moglie Ensaf Badawi, che vive a Montreal con i tre figli - Non ho più alcun rispetto per questo governo, nessuno dovrebbe averne per un governo che tortura i suoi figli e li priva della loro umanità". La donna ha tuttavia spiegato di essere stata informata che, con una mossa senza precedenti, l'ufficio del re ha ordinato la revisione del caso di suo marito da parte della Corte Suprema. "Il governo ha cambiato la sua decisione in seguito alle pressioni arrivate da tutto il mondo", ha detto.

Secondo molti analisti, la stretta saudita sugli attivisti si è andata intensificando con la Primavera Araba del 2011, che ha cancellato molti regimi dittatoriali della regione. Riad ha reagito da un lato investendo milioni di dollari in nuovi posti di lavoro, nuove case e nuovi benefit per i cittadini e dall'altro con una campagna per zittire gli attivisti, focalizzata soprattutto sui social media.

'Così Riad spinge i suoi giovani tra le braccia dell'Is'

"Il regime è spaventato - ha spiegato al telefono Mohammad al-Qahtani, attivista condannato a 10 anni di carcere e detenuto a Riad - Da quando la Primavera Araba ha destituito tanti dittatori corrotti, qui sono terrorizzati. Hanno provato a corrompere il popolo, hanno aspettato finché la tempesta non è passata e poi hanno buttato in carcere chiunque manifesti dissenso".

In particolare, secondo Qahtani, Riad è "ossessionata" dai social media, che sono più difficilmente controllabili. Lo scorso anno è stata adottata una legge antiterrorismo che lascia enorme discrezionalità alle autorità. Nel paese manca, secondo l'attivista, un sistema penale chiaro e standardizzato e tutto è rimesso al capriccio dei giudici e alle interferenze dei politici.

Ma in questo modo, secondo Qahtani "tanti sauditi si legano all'Is, per la mancanza di libertà politica nel loro paese. Sono frustrati perché non si possono esprimere". Racconta di aver visto tanti giovani adescati dai jihadisti in carcere. Unirsi all'Is "per loro equivale a suicidarsi - conclude - ma sentono che la loro vita non vale nulla, a causa dell'ingiustizia nel loro paese. Questo è quello che accade quando la gente è privata dei suoi diritti".

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