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Vietnam: 'Saigon Giai Phong', 40 anni fa la fine della guerra/Adnkronos

28 aprile 2015 | 16.49
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Il 30 aprile del 1975 cadeva la capitale del Sud. L'evacuazione del personale americano era già iniziata settimane prima, ma negli ultimi giorni ci fu una drammatica accelerazione. Decine di veterani cercano oggi figli e amori perduti in Vietnam.

di Marco Liconti

L'ex palazzo presidenziale di Saigon, ribattezzata dopo la guerra Ho Chi Minh City (Foto Afp)
L'ex palazzo presidenziale di Saigon, ribattezzata dopo la guerra Ho Chi Minh City (Foto Afp)

di Marco Liconti

"Fin da questa mattina ho aspettato di trasmettere il potere a voi". "Il vostro potere non esiste più. Non potete lasciare quello che non avete". Questo scambio di battute, pronunciate in un salone del secondo piano del palazzo presidenziale di Saigon, rispettivamente dal generale Duong Van Minh e dal colonnello Bui Tin, sono ricordate come l'atto conclusivo della Guerra del Vietnam. Erano circa le 11 del mattino del 30 aprile del 1975 e Saigon, la capitale del Sud Vietnam era caduta.

Per i nord vietnamiti e per i comunisti del sud, i Vietcong, Saigon era 'Giai Phong', liberata. La città fino ad allora era stata per lo più risparmiata dalle ferite che la guerra aveva prodotto in tutto il resto del Paese. Qualche sporadico colpo di mortaio, qualche attentato, qualche incursione nemica durante l'offensiva del Tet del 1968. Ma i combattimenti, anche nei giorni prima della caduta, si erano svolti ai margini della città, risparmiandola.

Minh era il presidente provvisorio del Sud. Due giorni prima aveva preso il posto di Tran Van Huonh, che a sua volta era succeduto al presidente Nguyen Van Thieu che il 21 aprile, sotto le pressioni del suo entourage che lo considerava di ostacolo ad un'improbabile soluzione politica della guerra, si era dimesso maledicendo gli americani. Washington a suo giudizio aveva prima costretto il Sud a prendere parte agli Accordi di pace di Parigi del 1973 e poi lo aveva abbandonato, chiudendo il rubinetto degli aiuti militari.

Tra la firma degli accordi di Parigi e gli ultimi giorni del regime sud vietnamita erano successe tante cose. Dalla crisi petrolifera allo scandalo Watergate, che aveva costretto il presidente Richard Nixon alle dimissioni. Il nuovo presidente Gerald Ford non aveva la forza necessaria per ottenere da un Congresso sempre più riluttante i 770 milioni di dollari che forse avrebbero consentito all'esercito sud vietnamita, indebolito dalla partenza delle truppe americane e fiaccato dalle troppe sconfitte subite contro i nord vietnamiti, di riorganizzarsi e resistere un po' più a lungo all'avanzata comunista. La 'vietnamizzazione' del conflitto, l'idea di Nixon e del segretario di Stato Henry Kissinger che prevedeva il ritiro delle truppe Usa e assegnava all'esercito del Sud la responsabilità e il peso di resistere all'avanzata del Nord, evidentemente non aveva funzionato.

Alle 10.24 del 30 aprile, Minh aveva annunciato il dissolvimento dello stato sud vietnamita e la resa incondizionata. Il neo presidente aveva quindi invitato il governo rivoluzionario provvisorio ad una "cerimonia per un passaggio di poteri ordinato per evitare inutili spargimenti di sangue tra la popolazione". Poi era rimasto nel palazzo presidenziale in attesa dell'arrivo dei vincitori.

Il colonnello Bui Tin come soldato aveva partecipato alla battaglia di Dienbienphu del 1954 contro i francesi. Poi, a tante fasi importanti della lunga guerra. Era anche divenuto vice direttore del Quan Doi Nhan Dan, il giornale dell'esercito nord vietnamita, e in quella veste aveva seguito la campagna di avanzata verso il sud come corrispondente. Ora, come comandante dell'unità di carri armati T-54 che aveva avuto l'ordine di dirigersi verso il Palazzo presidenziale, poteva essere testimone e allo stesso tempo protagonista del suo reportage più importante.

Pronunciò un breve discorso. "Tra i vietnamiti non ci sono né vincitori né vinti. Soltanto gli americani sono stati battuti. Se siete dei patrioti, considerate questo come un momento di gioia. La guerra per la nostra patria è finita", disse. Non era forse la cerimonia immaginata da Minh, ma era il massimo che Tin pensò di concedergli prima di prendere definitivamente possesso del palazzo presidenziale. Le sue parole su vincitori e vinti saranno poi drammaticamente smentite.

Non ci furono bagni di sangue evidenti a Saigon o nel Sud, ma decine di migliaia di ex funzionari di governo, di militari, personalità compromesse con il vecchio regime ed ex dipendenti e fiancheggiatori degli americani verranno 'rieducati' dalle nuove autorità comuniste e relegati ai margini della società, costretti ai mestieri più umili. Negli anni seguenti, un milione di sud vietnamiti, i 'boat people', tentarono lasciarono il Paese su barconi improvvisati. Nel 1977, il National Review documentò che 30mila vietnamiti del sud erano stati uccisi perché i loro nomi comparivano sulle liste di informatori della Cia che gli americani, nella fuga precipitosa da Saigon avevano dimenticato negli uffici della loro ambasciata.

Tra la fine di marzo e l'inizio di aprile era intanto iniziata in sordina l'evacuazione dalla città dei cittadini americani la cui presenza non era necessaria, degli stranieri alleati degli americani e dei sud vietnamiti associati con il regime di Saigon e con Washington. L'intensità con la quale l'evacuazione accelerò fu direttamente proporzionale alla rapida avanzata dei nord vietnamiti verso Saigon. A capo delle operazioni c'era l'ambasciatore Usa Graham Martin, perché le evacuazioni ricadevano sotto la responsabilità del Dipartimento di Stato. Martin aveva due obiettivi: evitare il caos ed evacuare, oltre agli americani, quanti più sud vietnamiti fosse possibile. Gli Stati Uniti avevano promesso che "se fosse giunto il momento" non li avrebbero abbandonati.

Nelle ore che precedettero l'ingresso in città della 324esima Divisione nord vietnamita, la prima ad entrare a Saigon, era ormai evidente che il piano di Martin, basato sull'impiego di aerei, non poteva funzionare come previsto a causa dell'inagibilità della pista dell'aeroporto, bombardata dai mortai nord vietnamiti. La mattina del 29 aprile l'ambasciatore comunicò a Kissinger l'intenzione di attivare l'Operazione Frequent Wind, l'atto finale dell'evacuazione. Il segretario di Stato diede l'OK e intorno alle 11 la radio americana iniziò a trasmettere 'White Christmas' di Irving Berlin. Era quello il segnale concordato per indicare a tutti gli americani ancora presenti in città di dirigersi immediatamente verso i punti di evacuazione.

Gli elicotteri che composero quel gigantesco ponte aereo iniziarono a fare la spola con le navi della Settima Flotta che si trovavano al largo delle coste vietnamite. Al ponte aereo si unirono anche i velivoli pilotati dai militari sud vietnamiti, sia elicotteri che piccoli aerei. I loro mezzi, una volta raggiunti i ponti delle portaerei e delle navi, venivano gettati fuoribordo per far spazio ad altri mezzi. L'ordine da Hanoi era di non sparare sugli elicotteri. L'uccisione di americani avrebbe potuto spingere Washington ad intervenire militarmente. Non tutti i sud vietnamiti che Martin sperava di poter evacuare riuscirono a salire sugli elicotteri. Le immagini di migliaia di disperati che tentavano di sfondare i cancelli dell'ambasciata Usa di Saigon per raggiungere il tetto dell'edificio sul quale si posavano i velivoli sono tra le più drammatiche di quelle convulse giornate.

La promessa di non abbandonare gli amici e i collaboratori sud vietnamiti non era stata mantenuta. "Le urla di panico dell'ultimo giorno sulle radio della Cia ancora tormentano la mia coscienza", scrisse molti anni dopo Frank Snepp, uno degli agenti dell'agenzia a Saigon. Nelle prime ore del 30 aprile, Martin aveva ricevuto da Kissinger e dal presidente Gerald Ford l'ordine di non imbarcare più sud vietnamiti. La priorità erano i cittadini e il personale americano. Lui stesso ricevette l'ordine di abbandonare l'ambasciata e salire a bordo di un elicottero. Lo fece, con la bandiera a stelle e strisce piegata sotto il braccio.

Una volta a bordo della Uss Blue Ridge, Martin chiese senza successo che gli elicotteri tornassero all'ambasciata per recuperare i sud vietnamiti che erano rimasti lì ad attendere. Ottenne però che le navi della flotta stazionassero in acque vietnamite ancora per qualche giorno, per consentire a quanti fossero riusciti a trovare un'imbarcazione di raggiungerle e mettersi in salvo dalla rappresaglia comunista. Secondo le stime del Dipartimento di Stato, negli anni della presenza americana in Vietnam i sud vietnamiti che avevano lavorato per l'ambasciata Usa e i loro familiari erano stati circa 90mila. In una testimonianza al Congresso, Martin riferì che di questo enorme gruppo erano state evacuate 22.294 persone.

Una delle immagini simbolo di quelle ore e di quei giorni, la foto nella quale il personale della Cia è in coda sul tetto dell'edificio al 22 di Gia Long Street per essere evacuato in elicottero , è stata ricreata in un museo militare di Lexington, nel Nebraska, utilizzando un vero elicottero dell'epoca e alcuni manichini. Ma forse l'immagine che più di tutte descrive la fine della guerra è una delle meno note tra le centinaia pubblicate sui giornali dell'epoca. La si trova in vendita come cartolina nelle centinaia di bancarelle di Saigon che ancora oggi vendono finti cimeli della guerra.

E' una foto in bianco e nero che ritrae il 30 aprile del 1975 un soldato nord vietnamita, un 'bo doi', un soldato di fanteria, mentre si riposa seduto sui gradini del Teatro dell'Opera, usato dal regime sud vietnamita come sede dell'Assemblea nazionale. Un gesto impensabile fino a poche ore prima. Sullo sfondo c'è la facciata dell'Hotel Continental, quello descritto da Graham Greene nell'Americano Tranquillo e scelto come base da decine di corrispondenti occidentali durante la guerra. L'irriverenza, probabilmente inconsapevole, del bo doi per quel luogo simbolo prima del potere coloniale francese e poi del regime sud vietnamita sostenuto dagli Usa indicava che Saigon era finalmente caduta.

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