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Il retroscena

Nel Pd la scissione non è più un tabù: minoranza con un piede di fuori

31 gennaio 2017 | 19.15
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(Fotogramma)
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"Il Pd è casa mia. Per buttarmi fuori ci vuole l'esercito". Pier Luigi Bersani a novembre, subito dopo i cori 'fuori fuori' della Leopolda con Matteo Renzi. "Non minaccio la scissione, ma non garantisco nulla". Bersani oggi in Transatlantico. L'ex-segretario Pd, per la prima volta, non esclude l'addio. E la cosa, parlando con i suoi, è molto più di un'evocazione.

Prendi Davide Zoggia: "Se alla Direzione del 13 febbraio, Renzi ci porta al voto anticipato, ma come facciamo noi della minoranza a metterci a fare campagna elettorale per Renzi? Che diciamo? Abbiamo sbagliato tutto sul referendum, sul jobs act? Senza un momento di confronto, senza un congresso, è uno scenario politicamente insostenibile". Già, la politica. I bersaniani smentiscono su tutta la linea che dietro le tensioni di queste ore ci sia una trattativa sui posti, sui capilista. "La questione è politica", puntualizzano.

E drammatizzano così: se Renzi non darà qualche risposta "positiva alla nostre richieste, faremo le nostre valutazioni. Fermo restando che per noi la prima opzione è quella di fare battaglia politica dentro il Pd. Vedremo se ci saranno le condizioni per continuare a farlo". Bersani specifica: "Io non chiedo un incontro a Renzi. Porrò due o tre questioni politiche e sentirò cosa mi dicono. C'è un piccolo oggetto, che si chiama Italia e io chiederò delle risposte su questo piccolo oggetto e poi mi regolerò".

Le richieste della minoranza Pd, però, sono antitetiche rispetto ai desiderata di Renzi. "Noi chiediamo tre cose: sostegno al governo Gentiloni, congresso anticipato e modifica della legge elettorale". Tutta roba che cozza con l'intenzione di andare a votare in primavera. Basta prendere solo la legge elettorale: per andare a elezioni anticipate a giugno occorrerebbe chiudere un accordo in tempi strettissimi, qualche settimana.

Quanto al congresso anticipato, la maggioranza Pd rinfaccia ai bersaniani di non averlo voluto dopo il referendum, per poi cambiare idea nel giro di un mese. "Non abbiamo cambiato idea -è la replica della minoranza- ma dal referendum a oggi la situazione è cambiata. A dicembre si ragionava su un percorso ordinato e invece ora ci troviamo davanti a un precipitazione, se Renzi il 13 febbraio in Direzione manda il Pd al voto".

E se questo sarà l'esito, la minoranza non esclude nulla. "Nel Paese - si spiega - c'è una grande richiesta di una forza di sinistra che si chiami Nuovo Ulivo o un altro Pd". E compagni di strada da Massimo D'Alema e pezzi di Sinistra Italiana, passando per Michele Emiliano, sono già ai blocchi di partenza.

"La questione che poniamo è politica", dicono i bersaniani e spiegano che è per questo che non sosterranno Michele Emiliano nella raccolta firme per un referendum interno sull'anticipo del congresso. L'iniziativa non raccoglie adesioni tra i bersaniani. Dice Nico Stumpo: "La nostra linea è chiara: prima del voto, serve un congresso. E' una posizione politica precisa. Lasciamo stare le 'carte bollate'...".

A norma di Statuto, la cosa sarebbe comunque praticabile. Articolo 27, comma 2: "È indetto un referendum interno qualora ne facciano richiesta (...) il cinque per cento degli iscritti al Partito Democratico". Secondo l'ultimo tesseramento, gli iscritti sono circa 350mila. Servirebbero, insomma, circa 20mila firme. Un numero non esorbitante. Sulla carta, però. "Se ci fosse ancora un partito attivo, un partito in cui sai che ogni mercoledì ci sono riunioni di circolo... allora potresti anche provarci a raccogliere le firme. Ma, per come stanno le cose, ma dove li vai a prendere 20mila iscritti?", si osserva nella minoranza Pd.

Emiliano però va avanti e le firme non se le va a prendere nei circoli, ma on line. Il governatore pugliese ha inaugurato un sito per la raccolta firme: 'Prima il congresso. Una campagna per unire il Partito democratico e rafforzare il Centrosinistra', è lo slogan.

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