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Cinema: al Torino Film Festival la "Diplomacy" di Schlondorff

22 novembre 2014 | 13.58
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La notte è quella tra il 24 e il 25 agosto 1944, gli alleati stanno per entrare a Parigi, gli occupanti tedeschi hanno un ordine: fare della Ville Lumière terra bruciata. "Anche se avevo promesso a mia figlia che non avrei fatto altri film sulla Seconda Guerra Mondiale sono rimasto commosso", dice il regista riferendosi al testo teatrale omonimo di Cyril Gely da cui è tratto il film

Volker Schlondorff (Foto Infophoto)
Volker Schlondorff (Foto Infophoto)

Roma - (AdnKronos/Cinematografo.it) - "Ogni regista è per metà militare e per metà diplomatico: sempre di più la mia simpatia va al diplomatico". Parola del regista tedesco Volker Schlöndorff, che porta al Festival di Torino e nelle nostre sale "Diplomacy – Una notte per salvare Parigi". La notte è quella tra il 24 e il 25 agosto 1944, gli alleati stanno per entrare a Parigi, gli occupanti tedeschi hanno un ordine: fare della Ville Lumière terra bruciata. Il Louvre, la Tour Eiffel, i ponti sulla Senna e gli altri principali monumenti sono già stati minati, farli esplodere tocca al generale Dietrich von Choltitz (Niels Arestrup), il governatore militare delal Ville Lumière, ma la discussione notturna che ha con il console generale di Svezia Raoul Nordling (André Dussollier) potrebbe cambiare il corso della storia.

Dal testo teatrale omonimo di Cyril Gely, Schlöndorff racconta una storia che già sappiamo com’è andata a finire, ma "anche se avevo promesso a mia figlia che non avrei fatto altri film sulla Seconda Guerra Mondiale sono rimasto commosso: la fine è appunto conosciuta, ma come fare per creare tensione, emozione, quando tutti i dati sono già sul tappeto? L’emozione non nasce dall’informazione, ma dai caratteri del film". Sul lavoro con gli attori, il regista ricorda i grandi con cui ha lavorato, da Fassbinder che diresse in "Baal" (1969, in cartellone al festival) a Niels Arestrup. "Il compito di un regista -spiega Schlöndorff- non è spiegare le motivazioni all’attore, perché non si possono rappresentare, ma metterlo in stato di grazia, dargli fiducia, farlo sentire bene, affinché lasci cadere tutte le barriere e si metta a nudo, perché la macchina da presa deve vedere anche dentro il personaggio, non solo esteriormente".

"Mi piace parlare con gli attori in camerino, su più argomenti, cosicché quando recitano non sentono la differenza, appunto, non sembra recitino", prosegue Schlöndorff, in lingua italiana finché non decide di "continuare in francese, il mio italiano è un po’ contadino" e tornare su Fassbinder, che incontrò la prima volta "nel piccolo antiteatro di Monaco, un retrobottega: sei persone in scena, dodici in sala". "Una candela accesa da due lati, Fassbinder, e quando oggi rivedo il film rimango commosso da quella profezia: prima di recitare 'Baal' non aveva quel sadismo, di certo la parte influenza sempre l’attore", conclude il regista.

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