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Mostra Venezia: in 'Beasts of No Nation' la tragedia dei bambini soldato

03 settembre 2015 | 19.28
LETTURA: 4 minuti

Il regista di 'Beasts of No Nation' Cary Fukunaga e l'attore Abraham Attah (foto Infophoto) - INFOPHOTO
Il regista di 'Beasts of No Nation' Cary Fukunaga e l'attore Abraham Attah (foto Infophoto) - INFOPHOTO

Il primo lungometraggio prodotto da Netflix, la regia di Cary Fukunaga (già al timone della prima stagione della serie rivelazione 'True Detective'), la tragedia dei bambini soldato africani. Gli ingredienti per far parlare di sé, anche ben prima della visione, c'erano tutti. E non a caso, forse, 'Beasts of No Nation' è stato scelto come titolo che aprisse il concorso di Venezia72 anche per questo: il film 'forte', il 'pugno nello stomaco' con cui mettere in chiaro, sin da subito, le cose.

D'altronde, non è un mistero e neanche una colpa, questo 2015 - al momento - non ha saputo regalare così tante perle nello sconfinato oceano delle produzioni mondiali. Anche lo stesso direttore del Festival di Venezia, Alberto Barbera, lo ha ricordato più volte: "Non è stato un anno particolarmente fortunato". Si fa quel che si può, insomma, e puntare su un prodotto come 'Beasts of No Nation', soprattutto alla luce di quanto detto sopra, è anche abbastanza comprensibile. Il film è già 'cult' prima ancora di essere visto.

La storia è quella di Agu (interpretato da Abraham Attah), ragazzino di un villaggio africano che, dall'oggi al domani, si ritrova solo, con la famiglia trucidata, e in fuga nella boscaglia. Sarà 'adottato' dal carismatico comandante di un manipolo di ribelli (Idris Elba) e messo ben presto nelle condizioni di 'nuocere'. Esecuzioni sommarie, violenze di ogni tipo, barbarie senza fine.

Il film alterna momenti brutali a riflessioni autoprodotte

L'infanzia di Agu viene catapultata dal vuoto fantasioso di 'imagination Tv' (la cornice di un vecchio televisore riempita da lui e i suoi amichetti con le interpretazioni più disparate) al pieno di mostruosità indicibili. Negata e abusata, messa in un tritacarne che Fukunaga sceglie di rendere sullo schermo attraverso un iperrealismo francamente discutibile, di sicura e facile presa per qualcuno, ma e(ste)ticamente ambiguo e pericoloso.

Il film, seguendo uno schema prevedibile e bulimico, cerca di alternare momenti più brutali a riflessioni autoprodotte (il bambino che si rivolge a Dio, il bambino che si rivolge alla madre, il bambino che, infine, ci spiega quanto sia impossibile descrivere l'orrore visto, fatto e provato).

Non sfuma su niente e su nessuno, calpesta e violenta, spacca teste come fossero meloni, e dipinge di rosso sangue la vegetazione al passaggio della falange. Poi, finiti i viveri, le munizioni e un nemico da combattere (forse lo spettatore?) ci pensano i salvifici caschi blu dell'Onu a condurre verso lidi più sereni il racconto. E chissà che un bagno al mare non possa lavare tutto quell'orrore: "Yes Sir! Yes Sir!".

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