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Cannes: Almodovar, in 'Julieta' palpita un thriller

16 maggio 2016 | 19.13
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Una scena di 'Julieta' di Pedro Almodovar
Una scena di 'Julieta' di Pedro Almodovar

(AdnKronos/Cinematografo.it) - Le sue protagoniste sono abbaglianti, forti, fragili, bellissime: Adriana Ugarte prima ed Emma Suarez dopo, due donne diverse per interpretare la stessa 'Julieta', in uscita nelle sale il 26 maggio e in concorso al festival di Cannes, in cui Almodovar ritrova quell’universo femminile che ha tanto indagato nel corso della sua carriera, con nuova sensibilità e pudore e con un taglio che sfiora il thriller. Forse perché c’è il dramma, senza il melò, quello di una madre prima di tutto. La sua casa di produzione, a Madrid, ha una grande cucina in cui ogni tanto compare qualcuno, saluta, si prende o un caffe o cucina qualcosa. Dall’olio di oliva all’orologio tondo, messo un po’ di sghembo la scritta 'El Deseo' campeggia ovunque. Lo studio di Almodovar è pieno di immagini delle sue attrici, una magnifica Penelope Cruz bionda, poster, oggetti diligentemente ordinati. Sprizza vitalità: non facciamo in tempo a sederci che le parole sgorgano come un ruscello in piena. Impossibile resistere al suo sguardo, occhi scuri profondi come pozzi artesiani. Si capisce che lavorare con lui dev’essere un atto di completa sottomissione. Emma Suarez ha detto che è valsa la pena di vivere quell’inferno dopo aver visto il film. "Per 'Julieta' - racconta il regista - non volevo attrici con cui avevo già lavorato. Abbiamo fatto molti provini. La Suarez l’ho presa al primo colpo. E Adriana Ugarte era la più convincente per la parte della giovane protagonista".

Il suo metodo Almodovar lo riassume in due parole: "La voce. Per me è fondamentale. Suggerisco il tono per ogni frase. Ai miei attori racconto i personaggi ma correggo sempre la pronuncia anche in spagnolo. Sono convinto che il modo di dire le cose determini una precisa espressione del viso. Proviamo moltissimo e all’inizio può sembrare una specie di dittatura. Devo ammettere - aggiunge e ride - che forse lo è". Il mistero che aleggia su 'Julieta' è un omaggio alla scrittrice canadese Alice Munroe, 'In fuga', o un’idea di Pedro Almodovar? "Appartiene a me - rivendica il regista - qualcosa della Munroe incomincia a fare capolino dopo 20 minuti con la scena del treno. Il cuore che palpita e si intravede all’inizio è al centro di tutta la storia. In alcuni momenti può sembrare un thriller, quando vediamo Julieta investigare, cercare. Credo però sia un film drammatico, quasi austero".

Julieta a vent’anni e dopo cinquantenne, affidata a due attrici nettamente diverse, un bel rischio? "Mi sono giocato tutto con quella carta. Ma finché non ho visto il film non potevo sapere se era la mossa vincente -racconta Almodovar- E’ una questione di stile. Ci sono autori che hanno preso decisioni molto più radicali di me. Buňuel per esempio in 'Quell'oscuro oggetto del desiderio', ha usato due donne molto differenti per la protagonista: Angela Molina furiosa, appassionata, e Carol Bouquet fredda o raggelata. Certo Buňuel è un regista surrealista quindi aveva grandissima libertà narrativa. Volevo soprattutto evitare il trucco dell’invecchiamento, un compromesso che posso accettare a teatro e non al cinema". La colonna sonora è affidata ad Alberto Iglesias, come d'abitudine per Almodovar che in questo caso parla di "un processo faticosissimo. Quando Alberto ha visto 'Julieta' la prima volta ha pensato che non avesse bisogno di nessun commento musicale. Mentre io lo volevo, anche per unire i salti temporali. Abbiamo incominciato ad agosto, non sono un compositore, però sono sempre presente. Nei primi tre mesi tutti gli schemi che mi proponeva non funzionavano. Ogni giorno gli dicevo no e lui si rimetteva al lavoro".

"A ottobre, per casualità, gli ho portato una colonna sonora di un giapponese che mi piace molto, Toru Takemitsu. È stato l’autore di 'Ran' di Akira Kurosawa, Alberto lo conosceva bene -ricorda il regista- e ha scoperto che il riferimento era Mahler e da qui la scintilla. C’è un momento in 'Julieta' che ricorda 'Morte a Venezia'. Alberto non è solo generoso, è una persona preziosa: un artista senza ego". Almodovar poi, a proposito dei suoi personaggi, del loro costante essere doppi, aggiunge: "La duplicità è un argomento che mi affascina. Nella scena del treno Julieta non solo conosce l’amore fisico, concepisce la vita. E allo stesso tempo entra in contatto con il lutto, e Xoan prima di incontrarla è seduto sulla poltrona che prima aveva occupato un morto. E’ una specie di presagio, di predestinazione. D’altronde, il piacere e il dolore, la vita e la morte, i grandi temi della nostra vita si mescolano sempre: l’amore e la disperazione vanno di pari passo e sono inseparabili".

Luogo significativo, il treno, per Almodovar:" Per me significa casualità, rischio, avventura. Da bambino c’era solo un treno che passava nel mio paese, molto lento. E per me rappresentava la libertà di andarmene da lì, sapevo fin dall’inizio che se c’era un futuro era fuori da quel posto". Un futuro iniziato proprio prendendo il treno: "Quando me ne sono andato avevo 17 anni. Ero minorenne. Allora era necessario rendersi indipendente".

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