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Medicina: ricerca italiana su Everest, in alta quota sale la pressione

27 agosto 2014 | 10.40
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 - Luca Galuzzi
- Luca Galuzzi

Cattive notizie per gli appassionati di montagna. La ridotta disponibilità di ossigeno in alta quota fa salire la pressione. Lo dimostra per la prima volta una ricerca condotta sull'Everest e firmata da un team di studiosi italiani. La ridotta disponibilità di ossigeno in alta quota causa un aumento progressivo della pressione arteriosa nelle 24 ore. Lo studio dell'Università di Milano-Bicocca e dell'Istituto Auxologico Italiano è pubblicato sull''European Heart Journal'.

I ricercatori hanno anche dimostrato che la protezione farmacologica per 'imbrigliare' la pressione regge solo fino a 3.400 metri di altezza, altitudini raggiunte da turisti, escursionisti e alcuni lavoratori della montagna, ma non a quote più elevate: come a 5.400 metri, cioè all'altezza del campo base dell'Everest. I risultati mostrano come, durante l'esposizione alla quota molto elevata di 5.400 metri, si verifichi un aumento di 14 mmHg nel valore medio della pressione arteriosa sistolica delle 24 ore e di 10 mmHg nella pressione diastolica.

Nel corso dello studio è stata monitorata la pressione arteriosa in condizioni dinamiche per 24 ore a diverse altitudini. La ricerca ha coinvolto un gruppo di volontari sani che normalmente vivono, lavorano e svolgono attività sportive a livello mare, proprio con lo scopo di indagare gli effetti sulla pressione e su numerosi altri aspetti della funzione cardio-respiratoria generati da una esposizione acuta e prolungata alla ridotta disponibilità di ossigeno in alta quota.

I risultati, spiegano gli studiosi, possono tuttavia essere di interesse anche per persone che, pur trovandosi a bassa quota, potrebbero per svariati motivi trovarsi temporaneamente in ipossia, senza cioè un adeguato apporto di ossigeno. E' quello che succede, ad esempio, a quanti soffrono di apnee notturne, episodi che riducono a intermittenza la concentrazione di ossigeno nel sangue facilitando la comparsa di ipertensione arteriosa e il rischio di attacchi ischemici o cardiaci.

Durante la spedizione, la pressione arteriosa è stata misurata ogni mattina. I valori di pressione sono stati monitorati anche utilizzando un dispositivo in grado di misurarla ogni 15-20 minuti durante l'intero arco della giornata, fornendo i dati per il 'monitoraggio dinamico della pressione', un metodo molto più accurato della misurazione tradizionale per valutare il reale livello pressorio. Con questo metodo è anche possibile misurare la pressione arteriosa notturna, che è normalmente inferiore del 10-20% rispetto ai valori diurni, permettendo di valutare meglio la prognosi rispetto ad altri parametri pressori.

La mancata riduzione della pressione durante le ore notturne, nonostante lo stato di sonno, può essere un segno di alterazioni nella regolazione della funzione dei vasi sanguigni e del cuore, ricordano gli esperti. Per lo studio, 13 dei 15 autori, insieme a 47 volontari, hanno raggiunto il campo base sud (lato Nepalese) del monte Everest, a un'altitudine di 5.400 metri sul livello del mare. Prima, però, ci sono state delle tappe intermedie: partenza da Milano (altitudine 120 metri) con volo in direzione Kathmandu, Nepal (1.355 metri), dove il gruppo si è fermato per 3 giorni.

Poi, ricercatori e volontari si sono spostati rapidamente, ancora in volo, a Namche Bazaar, sempre in Nepal (3.400 metri), dove sono rimasti per altri 3 giorni prima di iniziare il trekking di risalita (5 giorni) verso il campo base dell'Everest, dove si sono fermati per 12 giorni. I volontari sono stati assegnati in modo casuale a ricevere un placebo o un farmaco comunemente utilizzato in clinica per la terapia dell'ipertensione arteriosa, il telmisartan (80 mg). I risultati mostrano come sia nei soggetti randomizzati al trattamento con farmaco attivo, sia in quelli randomizzati a placebo, la pressione aumenti significativamente in quota rispetto ai valori iniziali, soprattutto nelle ore notturne, e come l'assunzione del farmaco antipertensivo possa permettere di contenere questo fenomeno, ma solo fino a determinate quote.

"Il nostro studio - spiega Gianfranco Parati, coordinatore del progetto e ordinario di Malattie dell'apparato cardiovascolare dell'Università di Milano-Bicocca, nonché direttore del Laboratorio di Ricerche cardiologiche dell'Istituto Auxologico - fornisce la prima dimostrazione che con l'aumentare della quota aumenta progressivamente e marcatamente la pressione arteriosa. Questo incremento avviene immediatamente al raggiungimento dell'alta quota, perdura durante l'esposizione prolungata all'alta quota ed è evidente durante tutto l'arco delle 24 ore, ma con un incremento maggiore nelle ore notturne, con conseguente attenuazione della fisiologica caduta notturna della pressione. La pressione si normalizza una volta ritornati al livello del mare. Inoltre, l'aumento della pressione sistolica al Campo base dell'Everest è stato maggiore in persone di età superiore ai 50 anni rispetto ai soggetti più giovani".

"Questi dati - continua Parati - possono avere implicazioni utili per la cura di pazienti con malattie croniche associate ad uno stato di ipossia, quali lo scompenso cardiaco, la riacutizzazione della broncopneumopatia cronica ostruttiva, le apnee ostruttive nel sonno o l'obesità di grado severo. L'aumento di pressione può essere attribuito a diversi fattori, tra i quali il più importante sembra l'attivazione del sistema nervoso simpatico, determinato dalla ridotta disponibilità di ossigeno". Questo "fa sì che il cuore venga sottoposto ad un carico maggiore di lavoro e che i vasi sanguigni si costringano". I medici potranno "istruire i pazienti con problemi cardiovascolari sulle precauzioni necessarie in caso di esposizione all'alta quota per motivi lavorativi o ludici", conclude lo studioso.

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