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Salute: studio, olio di palma apre la strada a diabete

27 aprile 2015 | 13.15
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Uno studio della Società italiana di diabetologia scopre la proteina killer delle cellule produttrici di insulina. Più insidie per chi ha un fisico 'a mela'

Salute: studio, olio di palma apre la strada a diabete

Troppo grassi nocivi, come l’olio di palma, possono aprire la strada al diabete distruggendo le cellule beta pancreatiche, produttrici di insulina. E il meccanismo attraverso il quale si produce questo danno irreversibile alle cellule del pancreas è stato individuato da uno studio dei ricercatori della Società italiana di diabetologia, pubblicato online sulla rivista 'Diabetologia'. A mediare il danno da eccessi alimentari, e in particolare da dieta troppo ricca di grassi, è la p66Shc, la proteina 'killer' delle cellule che producono insulina.

Questa proteina è insomma il revolver dell'olio di palma. E gli effetti sono particolarmente pronunciati a livello del pancreas e delle isole pancreatiche, che contengono le preziose cellule beta, produttrici di insulina. Un danno ripetuto a carico di questa regione del pancreas può portare dunque alla comparsa di diabete. Lo studio, condotto da Francesco Giorgino e dal suo gruppo dell’Università di Bari, con la collaborazione delle Università di Pisa e di Padova, ha valutato gli effetti del palmitato, un acido grasso presente nell’olio di palma (e in misura più modesta anche nel burro e nei formaggi) sull’espressione di questa proteina 'killer' a livello di isole pancreatiche umane e del topo, oltre che su cellule di insulinoma di ratto (un tumore fatto di cellule che producono grandi quantità di insulina).

L'espressione di questa proteina è stata inoltre misurata nelle isole pancreatiche di ratti, alimentati con una dieta ricca di grassi, e in quelle di donatori umani (cadavere) sovrappeso o obesi. Sono stati inoltre studiati gli effetti di una dieta ricca di grassi anche su cellule pancreatiche di topo e su cellule di insulinoma di topo nelle quali era stato 'cancellato' il gene codificante per la proteina p66Shc, che non poteva dunque essere più prodotta.

"Il palmitato - spiega il coordinatore dello studio, Francesco Giorgino, ordinario di Endocrinologia e malattie del metabolismo all’Università Aldo Moro di Bari e coordinatore del comitato scientifico della Sid - è il prototipo degli acidi grassi saturi, e rappresenta il principale acido grasso presente nel nostro sangue, soprattutto nei soggetti obesi o in sovrappeso. E' stato scelto in questo studio per comprendere il rapporto tra eccesso di grassi saturi nella dieta, aumento della quantità di tessuto adiposo corporeo e sviluppo del diabete di tipo 2".

"La proteina p66Shc - prosegue - è invece un potente induttore di stress ossidativo a livello cellulare. Agisce promuovendo la formazione di specie reattive dell’ossigeno, che sono in grado di danneggiare e uccidere le cellule. E funge anche da amplificatore di altri fattori in grado di promuovere lo stress ossidativo, quali l’iperglicemia nel diabete e un aumento della produzione di fattori coinvolti nell’infiammazione. È stato dimostrato che il topo da esperimento, privo del gene che produce la p66Shc, presenta una maggiore longevità perché è protetto dai danni dello stress ossidativo".

L'esposizione a palmitato provoca un selettivo aumento della proteina p66Shc e questo, a sua volta, induce un aumento dell’apoptosi (morte cellulare programmata) nelle cellule umane e di ratto e nelle cellule di insulinoma di ratto. Il fenomeno dell’apoptosi indotta da palmitato, come previsto, non è invece stato osservato nelle insule dei topi che ne sono privi. "L’obesità, in particolare quella viscerale, cosiddetta 'a mela' - spiega Giorgino - rappresenta uno dei più importanti fattori di rischio per lo sviluppo del diabete di tipo 2. I meccanismi responsabili di questo rapporto negativo non sono ancora del tutto chiariti, e per fortuna non tutti i soggetti obesi sviluppano il diabete. Nello studio, viene identificato nella proteina p66Shc una sorta di 'sensore' dell’eccesso di grassi e dell’obesità all’interno della cellula beta pancreatica, che poi crea effetti dannosi", a cascata.

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