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La lunga attesa dei malati rari, 25% aspetta fino a 30 anni per diagnosi

18 febbraio 2016 | 14.55
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'Raccontare la 'rarità': malattie rare, pazienti e media', presso il Palazzo dell'Informazione

Malattie misteriose, insolite, alcune delle quali ancora senza nome, che nel mondo colpiscono circa 350 milioni di persone, fra cui 1-2 milioni di italiani. "Fra i problemi delle malattie rare ci sono i tempi della diagnosi: secondo una ricerca condotta su 5.000 pazienti, il 25% la aspetta da 5 a 30 anni, e il 40% incappa in diagnosi sbagliate". Lo spiega Carlo Agostini, ordinario di Medicina interna all'Università Padova, oggi a Roma durante l'incontro 'Raccontare la 'rarità': malattie rare, pazienti e media', presso il Palazzo dell'Informazione, organizzato con il contributo di Baxalta.

In molti casi, per anni "né il curante né tanto meno il paziente sanno di trovarsi di fronte ad una malattia rara. Ecco perché spesso la malattia non viene mai diagnosticata o viene diagnosticata solo dopo molto tempo. Non tutte queste patologie sono orfane di cure, mentre lo sono ad esempio infezioni diffusissime come quelle da Klebsiella resistente ai farmaci". Ma la realtà dei pazienti, nonostante i progressi della ricerca e l'attivismo delle associazioni di malati, ancora oggi non è semplice: "A volte ci si ritrova in una Death Valley", racconta Agostini.

In particolare, a livello globale si stima che circa 6 milioni di persone vivono con una forma di immunodeficienza primitiva e che circa un individuo su 1.200 abbia una delle 300 forme di immunodeficienza primitiva. "Le immunodeficienze primitive - ricorda Agostini - sono malattie rare in cui il sistema immunitario presenta dei difetti funzionali o quantitativi degli elementi cellulari o proteici che intervengono nei meccanismi di controllo delle infezioni e della crescita neoplastica. Le manifestazioni principali sono legate alle infezioni acute e croniche, principalmente a livello del tratto respiratorio e del tratto gastrointestinale, nei due apparati quindi inevitabilmente più esposti all’ambiente esterno ed ai microorganismi".

Anche in questo caso "il ritardo diagnostico è purtroppo la regola. Si presume che circa dal 70 al 90% degli individui affetto da una immunodeficienza primitiva, pur vivendo in Paesi con sistemi sanitari evoluti, non riceve una diagnosi corretta in tempi accettabili. Con inevitabili conseguenze per il paziente. In molti casi si creano nel tempo danni d'organo irreversibili provocati dalle continue infezioni". Nei casi più comuni, comunque, la terapia è sostitutiva ed è salvavita. "In questi malati si cerca di sostituire gli anticorpi che il paziente non produce, grazie all'utilizzo di preparati ricchi di anticorpi ottenuti da donatori".

Da circa 10 anni, prosegue l'esperto, "abbiamo fortunatamente disponibile la terapia con immunoglobuline sottocutanee. Oggi il paziente, dopo un adeguato training, può provvedere da solo alla somministrazione del farmaco a domicilio una volta alla settimana. La nuova frontiera - conclude - è rappresentata dalla terapia con immunoglobuline sottocute facilitata: tramite l'utilizzo concomitante di un enzima, la ialunoridasi, in grado di diffondere rapidamente le immunoglobuline nel tessuto sottocutaneo. Con questo preparato è possibile rarefare il ritmo delle infusioni che possono essere somministrate non più settimanalmente ma ogni 3 settimane. Un indubbio vantaggio per la qualità della vita del paziente".

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