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Portare all'estero le aziende non conviene più: gli imprenditori tornano a casa

18 ottobre 2016 | 12.00
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Il call center di PhonEtica che ha scelto di non delocalizzare. Sulla destra i trolley Anima Libera e in basso i 'mastri-birrai' di  Messina
Il call center di PhonEtica che ha scelto di non delocalizzare. Sulla destra i trolley Anima Libera e in basso i 'mastri-birrai' di Messina

'Ritorno al passato' per alcune aziende italiane che decidono di tornare a produrre in Italia. Delocalizzare non sembra più l'unica soluzione, anzi, per alcuni "è una scelta miope", e chi è andato a produrre all'estero come Ciak Roncato fa ritorno in Italia, magari cominciando con un brand dal nome nostrano come Anima Libera per cui è stato creata anche la nuova ragione sociale 'Baulificio italiano'. "Per contenere i costi alla fine degli anni Novanta ci siamo visti costretti ad andare in Cina. Al momento sembrava la scelta giusta, poi però ce ne siamo pentiti perché abbiamo insegnato all'Asia a produrre i trolley" dice all'AdnKronos Federica Roncato, responsabile marketing e commerciale della storica azienda padovana, nata nel 1956, "producevamo valigie per chi andava all'estero a cercare fortuna", e arrivata al sessantesimo anno di attività, con la terza generazione tutta al femminile, le tre sorelle al timone dell'impresa.

Un rientro "non senza fatiche". "Il maggior ostacolo? La burocrazia, oltre alla mancanza di aiuto, gli alti costi del lavoro, e il dover trovare nuovi fornitori perché quelli con cui lavoravamo negli anni Novanta hanno chiuso". La decisione di ritornare è stata presa cinque anni fa, ma solo "da quest'anno è stato possibile partire con il made in Italy vero e proprio".

"Continuiamo a importare dai Paesi asiatici, dalla Cina, i prodotti di fascia media, mentre puntiamo sul made in Italy per quelli di fascia più alta da esportare in Russia, nei Paesi asiatici e arabi". "Noi abbiamo un valore aggiunto che abbiamo perso negli anni e che dobbiamo assolutamente ritirare fuori. Fortunatamente abbiamo sempre mantenuto le maestranze in azienda. E' importante la loro conoscenza. Sanno come creare un prodotto e portarlo alla fine del ciclo produttivo". Che ci manca? "Ho notato da noi una mancanza di 'patriottismo'. All'estero, per esempio, in Germania tendono a comprare prodotti di origine tedesca, da noi la moda è al contrario".

Dai dati, aggiornati al giugno del 2015, di un report Centro Europa Ricerche (Cer) con la collaborazione di Unindustria, risulta che a tornare in Italia sono soprattutto le aziende, attive nel tessile, abbigliamento e moda, comparto di punta del made in Italy, con il 43% dei rientri, seguite da quelle di apparecchiature elettroniche, elettriche e meccaniche.

Phonetica, aziende chiedono qualità

Dai trolley ai call-center, non manca in tempi di licenziamenti ad Almaviva, che minaccia di chiudere la sede di Roma e quella di Napoli, chi ha preso, poi, una direzione "ostinata e contraria". "Abbiamo scelto di gestire la clientela da vicino" dice all'AdnKronos Marco Durante, amministratore delegato di PhonEtica, che da' lavoro a più di 600 persone e che per scelta decide di aprire nuove sedi a Torino e Cesena al posto che andare all'estero. "Il fatto che i nostri operatori siano di cultura italiana, che siano costantemente aggiornati, è un vantaggio per la nostra clientela, che chiede un servizio di qualità" dice Durante. "Produrre fuori dall'Italia per me è miope perché si finisce con il dover cercare manodopera a costi sempre più bassi".

Il ritorno economico? "C'è perché spesso nella corsa a cercare prezzi più bassi spesso e volentieri come è successo da noi comporta il fatto che si chiudano dei siti che magari erano stati aperti grazie a decontribuzioni, aiuti regionali o europei. Finito l'effetto di quei contributi, le aziende non riescono più a soddisfare la richiesta del cliente di tenere il prezzo basso e chiudono la sede, la spostano e la portano da un'altra parte. Al di là di tutto questo è un costo".

Birrificio Messina, la nostra storia

Dalle aziende, che restano, a quelle che vengono salvate dai dipendenti. E' il caso del Birrificio Messina che, prima cambia proprietà e poi chiude, ma viene poi riportato all'attività dagli operai che si sono trasformati in imprenditori. La scommessa? Due anni fa la decisione degli ex operai di investire mobilità e trattamento di fine rapporto per diventare 'mastri birrai' nella città siciliana. "Ero un'operaia 30 anni fa appena entrata nello stabilimento, però, dopo circa un anno sono passata negli uffici e poi sempre in amministrazione" racconta all'AdnKronos la vicepresidente Francesca Sframeli, ma all'occasione, dice ridendo, "faccio anche da centralinista" visto che ha risposto anche al telefono direttamente. "Noi imbottiglieremo la birra dello Stretto e la Doc 15 in onore dei quindici soci della Cooperativa. Ci stanno aiutando gli 'emigrati' da Messina, chi in Lombardia, in Piemonte o in Inghilterra ha aperto un ristorante, una pizzeria, un locale tipico siciliano e, conoscendo le nostre birre, fa gli ordini. Saremo pronti per fine ottobre".

E a giudicare dalla loro pagina Facebook non gli mancherà l'appoggio. "I social ci stanno facendo da volano" spiega la vicepresidente. Oltre 18mila 'Mi piace' a coronare un'attesa per la ripartenza, 'benedetta' anche dalla visita, si legge sul post, "del nostro padre spirituale Don Terenzio Pastore che, dopo aver degustato la nostra birra", non gli ha fatto mancare "una preghiera", "dandoci la forza necessaria nel proseguire il nostro lungo e difficoltoso cammino".

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