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Italia declassata, cosa si rischia

20 ottobre 2018 | 09.27
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Moody's declassa l'Italia e porta il Paese un gradino sopra il livello dei cosiddetti 'titoli spazzatura'. Dopo l'avvertimento di Fitch a settembre, ecco quindi un'altra previsione al ribasso. Ma quali sono i rischi reali per l'Italia? Al momento il Paese si trova alla soglia del non investment grade, la categoria di imprese e Paesi cioè molto rischiosi per la platea di investitori. Se Fitch le assegna il voto 'BBB', mentre per Dbrs l'Italia è un gradino ancora più su con il rating 'BBB high' - considerandolo insomma un Paese affidabile, in grado di onorare i suoi debiti e rimborsare gli interessi in scadenza - Moody's declassa oggi da Baa2 a Baa3, con effetti che forse non saranno indolori.

Scongiurato il doppio downgrade, il Paese si ritrova in ogni caso a un solo notch dal livello 'junk'. Tuttavia, spiegava all'Adnkronos Antonio Cesarano, Chief global strategist di Intermonte, "di per sé, un declassamento di un'agenzia di rating può non essere un fatto sconvolgente, in certi contesti. Contano anche l'outlook, cioè le prospettive future, e l'aspetto corale di questa scelta, se cioè confermata dalle altre agenzie". E l'outlook dell'Italia per Moody's resta stabile. Evitato quindi lo scenario peggiore, cioè che al downgrade di Moody's si sommasse anche un outlook negativo, resta ora da aspettare il giudizio di S&P, in agenda per il 26 ottobre. Se l'agenzia si esprimesse con una revisione in negativo dell'outlook, il mercato potrebbe cominciare a riposizionarsi. "Stare al limite dell’investment grade - osserva ancora Casarano - è molto rischioso perché il mercato tende ad anticipare le azioni delle agenzie di rating".

E l'eventualità provocherebbe effetti quasi immediati, anche se non meccanici. In primo luogo, possono cambiare le politiche di investimento dei grandi fondi internazionali, ossia fondi comuni o fondi pensione, che diversificano e mettono un tetto massimo ai titoli più rischiosi: "Quando ci si avvicina a questa soglia, cambia il mercato e cambiano i compratori. Con un rating 'junk' - osserva Manuela Geranio, docente di Economia degli Intermediari Finanziari all'Università Bocconi - molti compratori istituzionali, soprattutto fondi comuni e fondi pensione, non possono più comprare perché hanno limiti in statuto su investimenti ad alto rischio. Da una parte il mercato si restringe, dall'altra cambiano gli interlocutori, un po' più hedge fund e meno investitori stabili, come gli assicurativi, cosa che ci esporrebbe a una maggiore volatilità".

Ci sarebbe poi da considerare l'effetto scia che il downgrade di un rating sovrano porta con sé. Le agenzie di rating riuniscono i comitati e valutano le implicazioni del declassamento di un Paese sulle società residenti che emettono obbligazioni. Sarebbe, nel caso, quasi scontata una revisione per il settore pubblico (Comuni, pubblica amministrazione), per quello delle partecipate statali e soprattutto per quello delle banche, molto esposti sui titoli governativi.

Gli istituti italiani, secondo i dati di Banca d'Italia, possedevano a luglio 373,3 miliardi di Titoli di Stato in portafoglio, un numero in crescita di circa 40 miliardi di euro negli ultimi sei mesi. "In questi casi, gran parte delle società, a ruota, subisce un declassamento del proprio rating. Quelle che hanno per lo più interessi all'estero potrebbero uscirne indenni, ma sono più l'eccezione della regola", sottolinea ancora Antonio Cesarano.

Quanto allo sguardo delle Authority europee nei nostri confronti non cambierebbe molto. Per le regole della Bce, sia ai fini del QE che ai fini delle operazioni di rifinanziamento con Titoli di Stato come garanzie collaterali (beni offerti in garanzia di un prestito, ndr), basta che almeno una delle quattro agenzie mantenga il Paese in area investment grade per continuare le operazioni.

"Questo è vero, ma - puntualizza Geranio - c'è anche il mercato interbancario e su quello italiano potrei aspettarmi una stretta". Ovvero, "i titoli messi a garanzia, peggiorata la loro qualità, potrebbero subire un haircut, cioè un taglio del valore applicato alla garanzia". Oppure, le banche "potrebbero aumentare il costo del funding, ossia dei finanziamenti, ammesso che vogliano ancora farne".

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