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Cina: Goldman, rischio passa per Paesi emergenti

27 agosto 2015 | 15.46
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Bandiera della Cina (Infophoto)
Bandiera della Cina (Infophoto)

La Cina, anche se "mostra segni di vulnerabilità", resta "un grande esportatore, ha ampie riserve e ha una connessione finanziaria moderata con il resto del mondo". Inoltre, i dirigenti cinesi "hanno sia la volontà che gli strumenti per intervenire, secondo le necessità. Di conseguenza, lo stress in Cina rimarrà probabilmente interno, piuttosto che esterno".

Tuttavia, i Paesi sviluppati dovranno fare i conti con il rischio che la trasmissione degli effetti del rallentamento cinese passi attraverso i Paesi emergenti, che sono "più piccoli in termini di Pil rispetto alla Cina, ma sono meno in grado di reggere gli choc e hanno connessioni finanziarie maggiori con il resto del mondo rispetto alla Repubblica Popolare".

E' l'analisi degli economisti della banca d'affari americana Goldman Sachs, nel Global Economics Weekly diffuso oggi.

Il rallentamento dell'economia cinese "coinciderà con una decelerazione delle economie emergenti, più che delle economie sviluppate", poiché le prime sono più correlate a quella cinese. Anche i rapporti commerciali dei Paesi emergenti sono maggiori rispetto a quelli dei Paesi sviluppati, pertanto "la trasmissione degli choc attraverso i canali commerciali sarà maggiore verso gli emergenti che verso i Paesi avanzati".

Quelli più esposti sono gli esportatori di materie prime verso la Cina, come "l'Oman, al 29% del Pil, ma anche le economie asiatiche come Singapore, la Corea del Sud e la Malaysia, dove l'esposizione al Dragone è in media del 12%. Tuttavia, ciò non vuol dire che i Paesi sviluppati non saranno colpiti. I più esposti sono l'Australia con il 6% del Pil (più che altro prodotti agricoli), il Giappone al 3% (su un ampio spettro di merci) e la Germania, al 2% (principalmente macchinari e trasporti)".

Non solo gli esportatori verso la Cina sono esposti al rallentamento dell'economia del Dragone, spiegano gli economisti, "ma, con lo yuan come strumento di politica economica, quelli che competono con la Cina ora devono affrontare maggiori difficoltà. E, tra gli emergenti, i rischi sono maggiori per i Paesi che hanno squilibri macroeconomici preesistenti, che siano interni, esterni o di entrambi i tipi. La lista, non tanto corta, degli emergenti più vulnerabili include Brasile, Sudafrica, Colombia, Cile, Corea del Sud, Thailandia, Taiwan e Malaysia".

Anche Russia e Turchia soffrono, nota Goldman, "la prima più per le commodities e la seconda a causa di squilibri interni. Anche se questi Paesi sono più piccoli della Cina in termini di Pil, rappresentano una fetta del Pil mondiale maggiore di quella dei Paesi a rischio durante le crisi asiatica ed europea. E la dimensione delle esportazioni dei Paesi sviluppati verso queste nazione è vicina a quella delle attuali esportazioni verso la Cina degli stessi Paesi. Pertanto, se la crescita cinese impatterà sugli emergenti, il rischio per i Paesi sviluppati avrà una dimensione simile: misurabile, ma gestibile".

Il punto critico, tuttavia, "è che i Paesi emergenti potenzialmente vulnerabili sembrano più deboli e sensibili nei confronti degli stress di mercato e di crescita di quanto non sia la Cina. A differenza della Repubblica Popolare, molti di questi Paesi hanno deficit delle partite correnti, quindi qualsiasi debolezza della valuta metterà ulteriori pressioni sulla domanda locale".

In più, questi Paesi "hanno maggiori legami finanziari al resto del mondo rispetto alla Cina: il debito estero dei Paesi emergenti potenzialmente esposti è circa al 28%, mentre la Cina ha pochissimo debito estero. Inoltre, l'esposizione delle banche dei Paesi sviluppati nei confronti degli emergenti è maggiore di quella verso la Cina. E le vulnerabilità dei Paesi emergenti hanno delle somiglianze con le condizioni che c'erano durante la crisi asiatica degli anni Novanta, ma i legami finanziari ed economici oggi sono maggiori".

Un altro canale di trasmissione dell'effetto del rallentamento della Cina è "quello delle materie prime: mentre parte del continuo declino dei prezzi delle commodities è guidato dall'offerta, con la Cina che continua a rallentare, anche il lato della domanda sta contribuendo".

Per contrastare queste spinte al ribasso, nota la banca d'affari, "una crescita più visibile negli Usa e negli altri Paesi sviluppati sarebbe utile. Avendo visto danni agli investimenti e alle imprese causati dal declino del prezzo del petrolio, restiamo ottimisti su un miglioramento della spesa dei consumatori, che dovrebbe materializzarsi presto. Invece, un rialzo dei tassi Usa servirebbe solo a esacerbare le difficoltà dei Paesi emergenti".

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