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Banche popolari, riforma c'è ma non si vede

14 aprile 2018 | 15.20
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di Vittoria Vimercati

A tre anni dalla sua entrata in vigore, la legge che ha riformato le banche popolari cancellando il voto capitario non ha ancora palesato i vantaggi di cui si diceva fosse portatrice. Le ex popolari rimaste - due sono sparite (Veneto banca e Bpvi), due si sono fuse assieme (Banco Popolare e Bpm ) - sono quelle che hanno registrato la peggior performance in Borsa dal 2015 e che scambiano tutt'ora a maggior sconto rispetto al valore di libro in confronto a istituti come Intesa Sp, Mediobanca o Credem. In tre anni, Ubi banca e Bper hanno dimezzato il loro valore; Creval è crollata dopo l'aumento iperdiluitivo da 700 mln e Banco Bpm, l'unica fusione alla pari, è partita da 2,5 euro il 2 gennaio 2017 e in poco più di un anno è cresciuta di circa il 15% rispetto all'ultima chiusura di Borsa. I loro multipli si aggirano sullo 0,3-0,4 contro lo 0,8-0,9 delle altre 'non riformate'.

Il "contributo all'efficienza del sistema" auspicato da Bankitalia è stato violento soprattutto per aver spazzato via il risparmio di molti piccoli soci, soprattutto quelli delle due banche venete che ancora oggi, tra processi e ricorsi all'arbitro finanziario, attendono di capire se potranno avere qualche rimborso. Le attese aggregazioni, a parte quella alla pari tra il Banco e Piazza Meda, sono state per lo più incorporazioni o salvataggi. Di "scalate" dei fondi nemmeno l'ombra, di ingressi eccellenti nel capitale si è visto poco e solo di recente. Tanto che il più clamoroso degli ultimi mesi è stato quello di Warren Buffett, ma ha riguardato proprio una società cooperativa, Cattolica Assicurazioni. Sembra che il rapporto tra costi e benefici della riforma, insomma, sia finora sproporzionatamente sbilanciato a favore dei primi.

Secondo due esperti intervistati dall'AdnKronos, però, le cose sarebbero destinate a cambiare, nel medio periodo. "E' vero, le aspettative erano alte e si può dire che è successo ben poco", puntualizza Gennaro Casale, senior partner di Boston Consulting Group, tra le prime società di consulenza ad analizzare le ipotesi di consolidamento, tre anni fa. "Le grandi trasformazioni del sistema bancario - dice - richiedono tempo. Basti pensare alle filiali, che in cinque anni si sono ridotte solo del 15% e secondo le nostre previsioni avrebbero dovuto dimezzarsi. Ma quello delle aggregazioni è un processo inesorabile". Prima del 2019, secondo Giuliano Cicioni, partner di Kpmg, "non dovrebbero esserci nuove, grandi fusioni: le banche devono completare le loro cessioni di crediti deteriorati".

A suo avviso, sono due gli aspetti che rendono difficili, oggi, operazioni di questo tipo. "Il mercato - sottolinea - sta premiando poco i titoli bancari in generale e ancor meno quelli con una cattiva qualità degli asset: prima di andare a nozze, le banche cercano di sistemare le loro criticità perché questo comporta un miglior premio di mercato". Poi, "la Bce non è propensa a concedere autorizzazioni ad aggregazioni tra banche che non abbiamo prima avviato una ristrutturazione interna. Quella in atto, tra cessioni di npl e aumenti di capitale è, in sostanza, una fase di preparazione".

Secondo Casale, le fusioni saranno necessarie e inevitabili. "Riteniamo - dice - che accrescere la dimensione e la scala sia l'unico modo di competere nel medio-lungo periodo sul panorama italiano, che è un panorama di bassi margini". In più, l'evoluzione del comparto "richiede investimenti significativi, sia a livello di nuove tecnologie e automazione dei processi, sia a livello di regolamentazione, che è sempre più invasiva e pressante". La visione dei due analisti sulla riforma è positiva, nonostante i risultati ancora poco evidenti. Anche quanto accaduto alle due banche venete non è legato alla riforma, ma a passati episodi di mala gestio. "Quella delle grandi cooperative - sostiene Casale - era una distorsione tutta italiana: riformarle non è stato un male, non ha ancora dispiegato i suoi benefici".

La riforma serviva "perché aiutava a superare i problemi strutturali che preesistevano e che il mercato ha dovuto scontare", ritiene invece Cicioni. Il problema è che la legge del Governo Renzi "è stata fatta in un periodo di crisi e per decreto, con un processo non condiviso e a tappe forzate, cosa che ha scatenato alcune difficoltà di attuazione". L'obiettivo principale che si poneva era "modificare gli assetti di governance e i risultati ci sono: oggi, anche grazie agli aumenti di capitale, le popolari hanno assetti capitari più aperti, da public company, e le aggregazioni, quando sarà il momento, saranno proposte, gestite e trattate su basi completamente diverse".

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