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Alimenti: quello sprecato nel mondo occupa un'area 10 volte Manhattan

17 settembre 2018 | 16.32
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(Fotolia)
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Ogni anno nel mondo si buttano via circa 1,6 miliardi di tonnellate di cibo, per un valore di 1.200 miliardi di dollari. È un terzo della produzione globale. Se accumulato, il cibo che finisce nella spazzatura occuperebbe un’area dieci volte più grande di Manhattan.

Come se non bastasse, nonostante le Nazioni Unite abbiano fissato l’obiettivo di dimezzare lo spreco entro il 2030, le stime avanzate da The Boston Consulting Group nel report “Tackling the 1,6 Billion Ton Food Loss and Waste Crisis” forniscono un quadro ancora più cupo: il dato è in crescita.

Senza interventi decisi, tra 12 anni si butteranno 2,1 miliardi di tonnellate di cibo, per un valore di 1.500 miiardi di dollari. Tra le conseguenze vanno annoverati danni all’atmosfera (il cibo non consumato è responsabile dell’8% delle emissioni globali di gas serra) e ritardi nella soluzione del problema della fame, che ancora oggi riguarda 870 milioni di persone.

Secondo il report di Bcg, gli sprechi avvengono durante tutte le fasi della filiera, ma principalmente in quella iniziale (la produzione) e in quella finale (il consumo): i Paesi emergenti sprecano soprattutto nella prima fase, a causa di carenze nelle tecniche produttive e di raccolto, oltre a ritardi nelle infrastrutture per il trasporto; i Paesi avanzati, al contrario, sprecano nella fase finale.

Cinque, secondo lo studio, le principali cause dello spreco di cibo: oltre ai due già citati (infrastrutture inadeguate e poca consapevolezza di aziende e consumatori), una mentalità aziendale che privilegia altri parametri di performance del processo produttivo (i costi e l’efficienza, ma non lo spreco alimentare), la poca collaborazione tra gli interessati e le regolamentazioni insufficienti.

BCG individua 13 best practice di aziende della filiera che fanno uso di tecnologie esistenti e che, se applicate a livello globale, consentirebbero di abbattere lo spreco e i costi per almeno 700 miliardi di dollari ogni anno, andando incontro agli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dall’Onu.

A livello produttivo, per esempio, è possibile intervenire sulle tecniche per il raccolto. Lo fanno dal 2005 associazioni di aziende come Croplife International, che sviluppa nuove tecnologie agricole (in particolare pesticidi e agritech) stipulando accordi con i produttori locali.

Allo stesso modo si può investire nel miglioramento dell’infrastruttura della catena del freddo: il gruppo di shipping Maersk ha introdotto sistemi di monitoraggio da remoto per i suoi container refrigerati, con cui contrasta e previene i cali di temperatura e gli imprevisti nel trasporto, anche riorganizzando gli ordini.

La supply chain: privilegiare ingredienti locali è una scelta che implica meno trasporti, meno costi e meno scarti. Lo fa già Pepsi.Co, che preferisce rivolgersi a fonti di produzione locali. D'altra parte, eliminare gli sprechi conviene. Tetra Pak, riducendo le perdite dei prodotti del 30%, ha anche abbattuto i costi operativi (-50%) e i consumi di acqua ed energia (-35%).

Se poi si introducessero logiche di economia circolare nel processo produttivo (ad esempio, destinando gli scarti alla produzione di mangimi, cosmetici o biocarburanti) si svilupperebbero anche redditizie attività laterali. A livello legislativo servono standard industriali per le etichette (“prima di”, “consumare entro”) e aiuti fiscali per le aziende virtuose.

Insomma, secondo lo studio sono le aziende il soggetto chiamato a sostenere il cambiamento e a promuoverlo. E sono le stesse aziende che ne trarrebbero i maggiori guadagni: oltre a minimizzare sprechi e costi, allargherebbero il parco di partner e collaboratori. E migliorerebbero la propria immagine.

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