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Bioeconomia made in Italy vale 260 miliardi

16 marzo 2018 | 14.28
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(Fotolia)
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In Italia la bioeconomia, ovvero l’insieme dei settori che trattano materie prime rinnovabili di origine biologica, ha raggiunto nel 2016 un valore della produzione pari a 260 miliardi di euro (8,3% sul totale italiano), in moderata crescita. Un dato che posiziona l'Italia al terzo posto in Europa dopo Germania e Francia. E' la fotografia dal 4° Rapporto sulla Bioeconomia in Europa presentato oggi a Palermo dalla Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo, dal Cluster della chimica verde Spring e da Assobiotec, l’Associazione nazionale per lo sviluppo delle biotecnologie che fa parte di Federchimica, in collaborazione con l’Università degli studi di Palermo.

"Lo studio - commenta Stefania Trenti, responsabile Industry Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo - conferma la rilevanza della bioeconomia nel nostro Paese, con un trend di crescita che ha riguardato soprattutto le componenti più innovative e i mercati esteri. La vivacità di questi settori è evidente anche dall’elevato numero di start-up della bioeconomia che abbiamo censito per la prima volta nel Rapporto. A questo proposito è interessante notare la specializzazione nella bioeconomia delle start-up innovative di alcune Regioni del Mezzogiorno (Sicilia, Sardegna e Puglia)".

Stando al rapporto, il comparto più rilevante in termini di valore della produzione è quello dell’industria alimentare, delle bevande e del tabacco, che copre oltre la metà del totale della bioeconomia (51%), per un valore superiore a 132 miliardi di euro, in crescita rispetto al 2015 di oltre due miliardi. Stabili o in crescita moderata gli altri settori manifatturieri più tradizionali afferenti alla bioeconomia (tessile, concia, legno e carta) mentre è risultata più dinamica l’evoluzione dei settori a maggiore contenuto tecnologico: farmaceutica, bioenergia e chimica bio-based.

Buona anche l’evoluzione della componente bio-based dell’energia (biocarburanti e produzione di energia elettrica da fonti biologiche) che si inserisce in un contesto di sviluppo generalizzato di tutte le fonti rinnovabili (fotovoltaico, idrico, eolico, geotermico). In particolare, l’andamento delle bioenergie a partire dal 2008 ha evidenziato una chiara accelerazione, arrivando a coprire nel 2016 quasi il 7% della produzione nazionale.

Per la prima volta, poi, nel Rapporto sono censite le startup innovative attinenti la bioeconomia. Si tratta di 576 soggetti, circa il 7% del totale delle start-up innovative iscritte all’apposito Registro, concentrati nell’attività di R&S e consulenza: 308 imprese con una incidenza del 16,5% sul settore, una quota elevata che conferma la natura innovativa di molte delle attività bioeconomiche.

In termini di numerosità - segnala il report - seguono poi l’alimentare e bevande (67 start-up pari all’11,6% del totale) e l’agricoltura (53 soggetti pari al 9,2%). Elevata anche la presenza di start-up innovative della bioeconomia nei settori dell’acqua, energia e rifiuti (52, concentrate nell’energia e nei rifiuti) e nella chimica bio-based (41 start-up, pari a quasi il 60% dei soggetti iscritti al Registro nel settore chimico).

"Fra le diverse fasi che compongono il ciclo idrico la più rilevante in un’ottica di bioeconomia- aggiunge Laura Campanini economista della Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo - è quella della depurazione e della conseguente produzione dei fanghi. I fanghi possono costituire una fonte importante di biomassa, attualmente solo in parte sfruttata, visto l’ampio ricorso alla discarica.

Lo studio evidenzia la necessità di passare da una logica di smaltimento a una di valorizzazione delle risorse biocompatibili. Dai fanghi si possono ricavare energia (biogas e biometano), singoli nutrienti (fosforo in primis) e biomateriali (bioplastiche). L’assetto normativo e regolamentare è cruciale perché in grado di indirizzare le scelte degli operatori. Il recente decreto sul biometano darà un impulso importante alla filiera".

Anche l’insieme delle attività legate allo sfruttamento delle risorse biologiche marine - segnala il Rapporto - è particolarmente importante: l’Italia è il terzo paese europeo (dopo Norvegia e Spagna) per valore aggiunto nel settore della pesca e acquacoltura, con una occupazione di circa 30.000 addetti. Il quadro normativo, volto a preservare la biodiversità marina e a garantirne la sostenibilità, spinge verso la ricerca di soluzioni innovative, in particolare quelle dedicate allo sfruttamento dei sottoprodotti della pesca: dal 2015 è previsto infatti l’obbligo di sbarco anche per gli scarti. Inoltre interessanti sviluppi sono attesi dallo sfruttamento delle alghe e dei batteri marini.

"I dati confermano l’importanza e le potenzialità della bioeconomia italiana, che negli anni è stata capace di dare vita a modelli fortemente innovativi e sistemici, sostenibili e competitivi allo stesso tempo", osserva Giulia Gregori, componente del Comitato di Presidenza di Assobiotec-Federchimica, nonché segretario generale di Spring e componente del board del Consorzio industriale della partnership pubblico-privata con la Commissione Europea Bbi Ju.

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