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Gay: Cassazione, maxi risarcimento per le vittime di omofobia

22 gennaio 2015 | 16.25
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La Suprema Corte si è espressa a proposito di un 34enne catanese a cui sospesero la patente perché dichiarò di essere omosessuale. Per gli ermellini è certa la "gravità dell'offesa". E aggiungono: "Tutelare il diritto al proprio orientamento sessuale"

Sfilata di moda di abiti per matrimoni omosessuali (Infophoto)
Sfilata di moda di abiti per matrimoni omosessuali (Infophoto)

La Cassazione sollecita un maxi risarcimento per le vittime di omofobia. Lo ha fatto con la sentenza 1126 della Terza sezione civile, depositata oggi, con la quale ha accolto il ricorso di Danilo Giuffrida, 34enne catanese vittima di un "vero e proprio comportamento di omofobia", come ha sancito oggi piazza Cavour disponendo un nuovo giudizio davanti alla Corte d'appello di Palermo che dovrà riquantificare, al rialzo, il risarcimento di 20mila euro accordatogli in appello per la violazione della privacy e per la discriminazione sessuale.

I fatti. Danilo Giuffrida, alla visita di leva nel 2005 dichiarò la sua omosessualità all'ospedale militare di Augusta. Circostanza che venne trasmessa alla motorizzazione che dispose un "nuovo esame di idoneità psico-fisica" sulla base del fatto che il giovane gay non avrebbe avuto i "requisiti psicofici richiesti" per poter guidare. Patente sospesa. Giuffrida si rivolse così all'avvocato Giuseppe Lipera che iniziò la battaglia giudiziaria.

Il Tar di Catania sospese il provvedimento, sostenendo che l'omosessualità "non può considerarsi una malattia psichica" e restituì l'idoneità di guida. Giuffrida presentò anche domanda di risarcimento danni ai ministeri della Difesa e dei Trasporti, ottenendo, in primo grado, un risarcimento di 100mila euro. Troppi soldi a detta della Corte d’appello di Catania che, il 12 dicembre 2010, ridusse la somma a 20mila euro. Oggi la Suprema Corte ha disposto un nuovo processo d'appello, sostenendo che 20 mila euro sono troppo pochi per una vittima di omofobia.

Nel dettaglio, la Cassazione ha ricordato che "il diritto al proprio orientamento sessuale, cristallizzato nelle sue tre componenti della condotta, dell'inclinazione e della comunicazione (coming out) è oggetto di specifica e indiscussa tutela da parte della stessa Corte europea dei diritti dell'uomo fin dalla sentenza Dudgeon/Regno Unito del 1981". Nel caso in questione, poi, ha osservato la Suprema Corte, "nonostante il malaccorto tentativo della Corte territoriale di edulcorare la gravità del fatto, riconducendola ad aspetti soltanto endo-amministrativi, non pare revocabile in dubbio che la parte lesa sia stata vittima di un vero e proprio (oltre che intollerabilmente reiterato) comportamento di omofobia".

La "gravità dell'offesa", hanno spiegato ancora gli 'ermellini', "appare predicabile con assoluta certezza". A scanso di equivoci, piazza Cavour ha bollato come "contraddittoria" la motivazione d'appello "quanto alla pretesa e silente circoscrivibilità dell'effetto espansivo del danno nella parte in cui la riconduce alla sola conoscenza (e alla presunta quanto indimostrata discrezione) dei soggetti pubblici che, dapprima all'ospedale militare, poi in seno alla commissione per la motorizzazione, si erano occupati del caso". E, art. 2 della Costituzione alla mano, ha ricordato "il diritto costituzionalmente tutelato alla libera espressione della propria identità sessuale quale essenziale forma di realizzazione della propria personalità".

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