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Cinema: a Roma sbarca '438 giorni', l'odissea di due giornalisti coraggiosi

23 ottobre 2019 | 15.37
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Una storia vera raccontata dallo svedese Jesper Ganslandt

Una scena di '438 giorni'
Una scena di '438 giorni'

"Lo scorso anno ho navigato con pirati ubriachi nello stretto di Malacca, mi sono mescolato con i trafficanti di uomini nelle strade dei quartieri a luci rosse delle Filippine, ho seguito i pedofili in Cambogia. Ma non l'ho fatto perché sostengo la pirateria, il traffico di persone o la pedofilia ma perché il mio lavoro di giornalista è quello di spiegare come funzionano questi fenomeni". E' in questa frase pronunciata da uno dei protagonisti, nel corso del processo farsa cui sono sottoposti, la chiave del film '438 giorni', dello svedese Jesper Ganslandt, presentato oggi alla Festa del Cinema di Roma.

La pellicola - che è stata selezionata per la selezione ufficiale - inizia nei giorni dell'estate 2011 quando il giornalista Martin Schibbye e il suo collega fotografo Johan Persson furono catturati dalle forze etiopi dopo essere entrati dalla Somalia nella regione dell’Ogaden senza visto d’ingresso. Una 'spedizione' che mirava in realtà a chiarire gli affari nascosti di una multinazionale petrolifera svedese e i suoi legami con il potente ex premier Carl Bildt, già membro del cda.

Il regime di Addis Abeba, guidato con mano di ferro dal premier Meles Zenawi, decise di trasfarmare la vicenda dei due giornalisti stranieri in una 'vetrina' e in un monito contro i dissidenti e la stampa libera. Di qui - in un primo processo - la sconvolgente condanna a 20 anni di carcere con l'accusa - palesemente falsa - di terrorismo.

La pellicola di Ganslandt, una delle voci più innovative del cinema scandinavo, segue la discesa agli inferi dei due cronisti e la loro tenace resistenza all'inferno delle carceri del regime (salvo scoprirvi brandelli di umanità e di solidarietà) ma anche la mobilitazione internazionale che spinse lo stesso Bildt, all'epoca ministro degli Esteri, a confrontarsi con Zenawi per ottenere un umiliante 'perdono'.

Quello di '438 giorni' - ovviamente quelli passati come prigionieri del regime di Addis Abeba - è un racconto senza compiacimenti per l'orrore che mette in scena, che 'vive' grazie alle notevoli interpretazioni dei due protagonisti, Gustaf Skarsgård (avviato verso una brillante carriera internazionale) nei panni di Schibbye e Matias Varela in quelli di Persson. Sullo sfondo - decisivo - l'intervento di un operatore televisivo che, mettendo a rischio la propria vita, smascherò le manipolazioni dei filmati usati per accusare i due svedesi, consegnandoli all'ambasciatore di Stoccolma.

Il film - spiega il regista - "è uno studio su come ci vediamo costretti a mettere in discussione i nostri ideali quando ci troviamo di fronte a una realtà molto più complessa di quella che conosciamo". Ma è anche un inno al coraggio e alla dignità, un 'memo' sull'importanza della stampa libera e sulla facilità (ma anche sull'impossibilità) di soffocarla, un film che viene proiettato a Roma nei giorni in cui a Oslo il Nobel per la pace viene assegnato al successore di Zenawi, il premier Abiy Ahmed Ali, promotore dello storico accordo di pace con l'Eritrea. Quando il film è stato pensato e girato, un esito del genere sarebbe sembrato impossibile: a suo modo, invece, è una vittoria 'postuma' dei due giornalisti svedesi.

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