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Femminicidio di Alessandra Matteuzzi, ergastolo per l'ex Giovanni Padovani

Uccisa a colpi di martello, calci e pugni sotto la sua casa il 23 agosto del 2022

Alessandra Matteuzzi e Giovanni Padovani (Fotogramma)
Alessandra Matteuzzi e Giovanni Padovani (Fotogramma)
12 febbraio 2024 | 18.04
LETTURA: 3 minuti

La Corte di Assise di Bologna ha condannato all'ergastolo il 28enne Giovanni Padovani per l'omicidio dell'ex fidanzata Alessandra Matteuzzi, uccisa a colpi di martello, calci e pugni, sotto casa sua a Bologna il 23 agosto del 2022. Riconosciute per l'ex calciatore anche le aggravanti chieste dalla Procura dello stalking e della premeditazione.

''Al momento non commentiamo - ha detto l'avvocato Gabriele Bordoni, legale di Padovani -. Lo faremo quando saranno depositate le motivazioni della sentenza. A quel punto leggerò con interesse e replicherò sui punti che la Corte evidentemente non ha condiviso della nostra linea difensiva''.

Sorella della vittima: "Oggi è stata fatta giustizia"

"Non è bello dare un ergastolo, ma se uno se lo merita bisogna dare pene severe: oggi è stata fatta giustizia per mia sorella" ha detto Stefania ai microfoni de 'La Vita in Diretta' su Rai1. Padovani "aveva diritto di parlare" e "io ho ascoltato con rispetto", così "come ho sempre affrontato questo processo, con i valori che mi hanno insegnato i miei genitori, che aveva anche mia sorella", ha spiegato Stefania. "Nemmeno io avrei voluto essere qui oggi e avrei voluto che le cose fossero andate in maniera diversa, ma lui ha deciso questo e deve prendersi le sue responsabilità - ha concluso -. Come ho sempre detto, vado avanti solo per la giustizia: è l'unica cosa che mi può portare a dire 'mi alzo un altro giorno' perché altrimenti è un'agonia continua, sono distrutta".

Il gip di Bologna Romito: "Animato da delirio di gelosia, è molto pericoloso"

Un omicidio efferato quello di Alessandra Matteuzzi. Prima è stata colpita alla testa con una martellata, quindi colpita al volto e al corpo con calci e pugni, poi ancora colpita con una panchina di ferro, presente nell'atrio del condominio. Alessandra, scriveva il gip di Bologna Andrea Salvatore Romito nella convalida dell'arresto, viveva in "uno stato di timore, di malessere, di costante pressione e di disagio" visto che l'ex controllava l'abitazione e le frequentazioni ("sovente introducendosi clandestinamente all'interno dello stabile o anche dell'appartamento attraverso il terrazzo" si legge nell'ordinanza), monitorava cellulare e profili social, la costringeva a effettuare "brevissimi intervalli videochiamate o filmati" per verificare le sue affermazioni, le danneggiava l'auto o la minacciava temendo tradimenti. "L'aggressione del 24 agosto costituisce, a ben vedere, solo l'ultimo tassello di tale persistente rappresentazione mentale, saldandosi agli atti pregressi così da costituire l'insano completamento".

Per il giudice, Padovani era animato "da un chiaro intento vendicativo (visto che non avevo ricevuto ancora risposta, mi sono sentito nuovamente usato e manipolato, quindi decidevo di andare di nuovo a Bologna per chiarire, perché non capivo il suo comportamento dopo che il giorno prima eravamo stati benissimo insieme", lui dichiara. Contro la donna, dopo che il martello si rompe, usa prima calci e pugni, poi una panchina in ferro presente nell'atrio del condominio. Una "intensità del dolo" interrotta solo dall'intervento di alcuni vicini, che impedivano di continuare a infierire e scappare.

L'indagato è "animato da un irrefrenabile delirio di gelosia e incapace sia di accettare con serenità il verificarsi di eventi avversi, ma pur sempre rientranti nelle ordinarie dinamiche relazionali (la cessazione di un rapporto, per di più caratterizzato da incontri sporadici), sia di attivare l'ordinario sistema di freni inibitori delle proprie pulsioni aggressive". Elementi che indicano una "eccezionale pericolosità e assoluta incontrollabilità o prevedibilità delle azioni e non consentono di riporre alcuna fiducia sulla spontanea adesione da parte del prevenuto a prescrizioni" e che dunque rendono il carcere - anche per proteggere la famiglia della vittima - l'unica soluzione possibile.

"La gravità dei fatti è attestata dalla ampia estensione temporale della condotta persecutoria, posta in essere a fronte di un rapporto sentimentale di modesta durata e ridotta frequentazione e, dunque, indicativa del desiderio ossessivo nutrito dal detenuto e della sua incapacità di accettare la cessazione della relazione, dalla quotidianità ed intensità delle molestie e dalla multiformità delle condotte assunte" conclude il Gip.

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