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Ergastolo ostativo, per la Consulta è incostituzionale

La Corte Costituzionale: sì a permessi premio anche senza collaborazione con la giustizia purché ci siano elementi che escludono collegamenti con la criminalità organizzata

(Fotogramma)
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23 ottobre 2019 | 17.21
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Permessi premio anche senza collaborazione con la giustizia purché ci siano elementi che escludono collegamenti con la criminalità organizzata. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che si è riunita oggi in camera di consiglio per esaminare le questioni sollevate dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia sulla legittimità dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario là dove impedisce che per i reati in esso indicati siano concessi permessi premio ai condannati che non collaborano con la giustizia. In entrambi i casi, si trattava di due persone condannate all’ergastolo per delitti di mafia.

In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Corte fa sapere che a conclusione della discussione le questioni sono state accolte nei seguenti termini. La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo.

In questo caso, la Corte - pronunciandosi nei limiti della richiesta dei giudici rimettenti - ha quindi sottratto la concessione del solo permesso premio alla generale applicazione del meccanismo “ostativo” (secondo cui i condannati per i reati previsti dall’articolo 4 bis che dopo la condanna non collaborano con la giustizia non possono accedere ai benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario per la generalità dei detenuti). In virtù della pronuncia della Corte, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica.

Il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, non appena appresa la notizia della sentenza della Consulta, ha immediatamente dato impulso agli uffici del ministero di mettersi subito al lavoro per analizzare le possibili conseguenze. Lo si apprende da fonti di via Arenula. "La questione ha la massima priorità" ha detto il ministro.

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LE REAZIONI - Per l'associazione Nessuno Tocchi Caino, da anni impegnata, con il Partito Radicale, per l’abolizione dell’ergastolo ostativo, "la decisione della Corte Costituzionale apre una breccia nel muro di cinta del fine pena mai”. Mentre il consigliere del Csm Nino Di Matteo denuncia che "la sentenza ponendo fine all’automatismo che caratterizza l’ergastolo ostativo apre un varco potenzialmente pericoloso". "Dobbiamo evitare che si concretizzi uno degli obiettivi principali che la mafia stragista intendeva raggiungere con gli attentati degli anni ‘92-‘94 - dice in un'intervista all'Adnkronos - Spero che la politica sappia prontamente reagire e, sulla scia delle indicazioni della Corte Costituzionale, approvi le modifiche normative necessarie ad evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo".

A stretto giro la dura replica del presidente dell’Unione camere penali Gian Domenico Caiazza: "La dichiarazione del dott. Di Matteo è di una straordinaria gravità. Egli non si limita ad esprimere un dissenso rispetto ad una decisione del giudice delle leggi, ma si spinge a chiedere che il legislatore in qualche modo adotti contromisure per vanificare quella decisione, come se questo fosse possibile senza letteralmente sovvertire principi e regole fondativi del nostro stesso assetto democratico, e dell’equilibrio tra i poteri". "Occorre che qualcuno spieghi al dottor Di Matteo - aggiunge - che egli è oggi membro di una istituzione repubblicana, non leader di un partito politico; e che le decisioni del giudice delle leggi impongono l’esatto contrario di ciò che egli auspica, e cioè che il legislatore si adegui ad esse".

Critiche arrivano però anche da Antonio Ingroia, ex magistrato palermitano, oggi avvocato e fondatore del movimento 'Azione civile', che parla di sentenza "errata" perché "pretende di applicare una norma generale a un caso specifico e speciale che non si può sottoporre a quel principio generale". "Dalla mafia non si entra e si esce come se fosse un partito politico - scandisce Ingroia all'Adnkronos - Il patto di sangue è a vita. Come ci ha insegnato Falcone, da Cosa nostra non si va via se non in due modi: morti ammazzati o collaborando con la giustizia e chiedendo allo Stato protezione perché nel momento in cui si esce dalle fila di Cosa nostra si è condannati a morte". Adesso il rischio è che torni forte l'ala militare di Cosa nostra. "Ovviamente si apre un'altra maglia in una rete abbastanza sforacchiata - dice Ingroia - Con gli elementi più pericolosi dell'organizzazione mafiosa, anche quella militare, che possono aspirare a un ritorno sul territorio, si apre una stagione preoccupante".

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