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Adolescenti chiusi in casa, chi sono gli 'hikikomori' italiani

03 marzo 2023 | 17.08
LETTURA: 5 minuti

Uno studio condotto dal Cnr-Ifc indaga il fenomeno: sono quasi 54mila

Adolescenti chiusi in casa, chi sono gli 'hikikomori' italiani

Sono circa 54mila i giovani 'hikikomori' italiani, ovvero quei ragazzi che hanno deciso di ritirarsi dalla vita sociale e scolastica arrivando a non uscire di casa per lunghi periodi, limitando al minimo i rapporti con l’esterno e mantenendo i contatti prevalentemente attraverso Internet. Un fenomeno emerso in Giappone, Paese da cui deriva infatti il termine 'hikikomori', e studiato principalmente in quel contesto, ma che nel 2021 è stato oggetto di un'indagine anche in Italia. La ricerca, promossa dal Gruppo Abele in collaborazione con l’Università della Strada, è stata realizzata dall’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Cnr-Ifc) con l'obiettivo di fornire una stima quantitativa dell’isolamento volontario nella popolazione adolescente.

L'indagine Cnr-Ifc

L'indagine ha coinvolto oltre 12mila studenti fra i 15 e i 19 anni che si sono autovalutati attraverso un apposito questionario. Il 2,1% del campione si è riconosciuto come hikikomori, percentuale che ha permesso di stimare in 54mila i ragazzi italiani che si identificano in una situazione di ritiro sociale.

Un dato che "appare confermato dalle risposte sui periodi di ritiro effettivo - spiega Sabrina Molinaro, ricercatrice del CnrIfc - : il 18,7% degli intervistati afferma, infatti, di non essere uscito per un tempo significativo, escludendo i periodi di lockdown, e di questi l’8,2% non è uscito per un tempo da 1 a 6 mesi e oltre: in quest’area si collocano sia le situazioni più gravi (oltre 6 mesi di chiusura), sia quelle a maggiore rischio (da 3 a 6 mesi). Le proiezioni ci parlano di circa l’1,7% degli studenti totali (44mila ragazzi a livello nazionale) che si possono definire hikikomori, mentre il 2,6% (67mila) sarebbero a rischio grave di diventarlo”, e infine il 3,9%, ossia oltre 100mila studenti, a rischio più ridotto.

Un altro dato significativo che emerge dalla ricerca è il 6% degli studenti che riferiscono di non aver legato con nessuno dei coetanei, assieme al 5,6% - circa 145mila studenti - che afferma di non uscire mai di casa e dalla propria stanza se non per andare a scuola.

Età più a rischio e differenze di genere

Tra chi ha attuato l'isolamento volontario per un periodo di 6 mesi o più - escludendo i periodi di lockdown -, non si rilevano distinzioni relative alla fascia di età: la percentuale risulta infatti pari all’1,8% sia tra i 15-17enni sia tra i 18-19enni. Emerge tuttavia una differenza in termini di percezione: tra gli studenti che si riconoscono nella descrizione di hikikomori c'è una prevalenza del 2,7% tra i 15-17enni e dell’1,5% tra i 18-19enni.

L’età più a rischio per la scelta di ritiro dunque è quella che va dai 15 ai 17 anni, un dato che fa supporre che le motivazioni per il comportamento autoescludente affondino le proprie origini già nel periodo della scuola media. Per il gruppo dei 18-19 anni, invece, il dato indica che il rischio isolamento diminuisce, ma che per una minoranza si protrae con modalità più persistenti e gravi, portando a un pericolo più alto di sviluppare uno status di hikikomori adulto.

Quanto alle differenze di genere, i maschi sono la maggioranza fra i ritirati effettivi con le seguenti percentuali: per un periodo di isolamento di 6 mesi o più sono il 2,1% rispetto all’1,4% delle ragazze; dai 3 ai 6 mesi sono il 2,8% contro il 2,5% delle ragazze; da 1 mese a 3 sono il 4,1% contro il 3,7% delle ragazze. Le femmine tuttavia si attribuiscono più facilmente la definizione di hikikomori: 2,5% dei casi rispetto all’1,7% dei maschi. Molto diversi inoltre i comportamenti: le ragazze sono più propense al sonno (+20,6% rispetto ai ragazzi), alla lettura (+8,1% rispetto ai ragazzi) e alla tv (+10,4% rispetto ai ragazzi), mentre i maschi si dedicano in particolare al gaming online (59,8% rispetto al 18,5% delle femmine).

Le cause del ritiro sociale

Cosa spinge questi ragazzi a scegliere di isolarsi dal mondo? Le cause sono molteplici ma prima fra tutte è il senso di inadeguatezza rispetto ai compagni e la fatica nei rapporti interpersonali, caratterizzati da frustrazione e autosvalutazione. L’1,4% degli studenti infatti si sente costantemente deriso o giudicato negativamente e lo 0,4% riferisce di aver subito atti di bullismo. Vengono presi di mira i comportamenti, la timidezza, il rendimento scolastico, gli hobby e l’aspetto fisico. In quest'ultimo caso, in particolare il modo di vestire (27%) e il peso (18%).

Il quadro che emerge è interessante anche per quanto riguarda le motivazioni della cessazione scolastica, non più rapportabili solo ai tradizionali indicatori dell’abbandono e della dispersione, ma che vedono entrare in gioco profonde sofferenze relazionali, grave inadeguatezza personale e insostenibilità della propria esposizione a scuola.

La reazione degli adulti

“Un altro dato parzialmente sorprendente riguarda la reazione delle famiglie: più di un intervistato su 4, fra coloro che si definiscono ritirati, dichiara infatti che i genitori avrebbero accettato la cosa apparentemente senza porsi domande. Il dato è simile quando si parla degli insegnanti”, sottolinea Sonia Cerrai del Cnr-Ifc.

Le risposte dei ragazzi al questionario evidenziano infatti da parte dei genitori trascuratezza (19,2%), incomprensione (26%) e punizioni (6,1%). Solo il 14,8% dei giovani riferisce una reazione di preoccupazione da parte degli adulti di riferimento. Non va meglio per quanto riguarda gli insegnanti: per i ragazzi i docenti non si preoccupano (27%) oppure pensano che l’assenza sia dovuta a malattia (23,1%), e solo poco più di un quinto si mostra preoccupato (21%).

Un risultato che evidenzia l'ancora persistente sottovalutazione del fenomeno non solo nella società, ma anche tra i familiari e la scuola, che sono diretti interessati.

Lo studio, nonostante alcuni limiti (la soggettività dell'autovalutazione e il periodo temporale dello studio, a ridosso dei lockdown), riflette dunque la necessità di una collaborazione tra scuola, famiglie e servizi socio-sanitari pubblici e privati per intercettare il fenomeno precocemente, in particolare durante il primo biennio delle superiori, quando è più facile che si instaurino il malessere relazionale, il senso di isolamento e la tentazione di autoreclusione difensiva.

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