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Brexit, sgr e non solo: ecco chi lascerà Londra in caso di uscita da Ue

16 giugno 2016 | 17.01
LETTURA: 4 minuti

Una bandiera pro-Brexit
Una bandiera pro-Brexit

di Vittoria Vimercati.

Imprese finanziarie e non, banche, società di gestione del risparmio, broker ma anche semplici aziende manifatturiere. L'identikit delle società a cui converrà lasciare Londra in caso di Brexit è ad ampio raggio e conta tutte quelle che utilizzavano Londra come "passaporto" o "porta di accesso" al resto dell'Unione europea, comprese le società dei Paesi emergenti che avevano puntato su Londra per aumentare visibilità e scambi con l'Europa.

Tra le big del credito, Jp Morgan ha già assicurato che in caso di Brexit si troverà costretta a tagliare alcune migliaia di posti di lavoro nella capitale; Morgan Stanley potrebbe spostare circa mille persone del suo staff dalla city. Secondo alcuni docenti ed esperti interpellati dall'AdnKronos, l'ipotesi di trasferimento delle sedi è "assolutamente credibile" e le destinazioni più accreditate sono Francoforte, Parigi e Dublino.

Il motivo è relativamente semplice: il Regno Unito "non potrà più avvalersi di tutte quelle condizioni garantite dal libero scambio che fino a oggi hanno contraddistinto le sue relazioni commerciali e finanziarie con il resto dell'Ue", spiega Marco Lossani, docente di economia internazionale all'Università Cattolica di Milano. L'export dall'Inghilterra si "troverebbe di fronte a una serie di nuove barriere tariffarie e non".

Secondo Carlo Altomonte, docente di politica economica europea all'Università Bocconi di Milano, tante società "hanno già fatto piani di rilocazione di parte del loro personale e delle loro attività. E' ingenuo pensare che resti tutto come prima in caso di Brexit, perché la regolamentazione in qualche modo cambierà e l'assenza di barriere, che oggi diamo per scontata, non ci sarà più".

I Paesi dell'Ue dovranno rinegoziare i contratti rispetto al nuovo status giuridico del Regno Unito e "potrebbe anche scattare una voglia di rivalsa da parte dei Paesi dell'Unione e, di conseguenza, ostacoli e barriere al libero scambio".

Tra le opzioni per una nuova 'base' c'è anche Milano, non foss'altro che "pur essendo una città interessante e cosmopolita, spaventa per l'incertezza del quadro giuridico e fiscale", spiega sempre Altomonte. "Se vado a Parigi so quante tasse dovrò pagare, se vado in Italia no". Dunque, nella gara per accaparrarsi l'investimento di importanti società, in caso di Brexit, Milano è eterna seconda. Se non quarta o quinta scelta.

Il Governo, in questo caso, potrebbe aiutare la città promuovendo i tax ruling, le lettere di intenti emesse da un Paese che forniscono a una società i chiarimenti sul modo in cui saranno calcolate le imposte almeno su base quinquennale. Il problema, secondo Luca Trabattoni, Country Head per l'Italia e i Paesi del Mediterraneo di Ubp, è anche "la rigidità del mercato del lavoro". Il Jobs act, sostiene, "non è ancora sufficiente: l'Italia può vincere una sfida del genere se riesce a dimostrare di essere competitiva e meno burocratica".

Secondo Trabattoni, "Dublino, Francoforte e Parigi sono già utilizzati per le succursali delle società presenti a Londra. Sarebbero la destinazione naturale per molte realtà". L'Italia, invece, "è ancora percepita come un mercato caratterizzato dalla rigidità del lavoro e da un'elevata burocrazia". E questo nonostante il reddito del dipendente, che "è decisamente più basso al confronto con Londra".

Uno degli effetti immediati sulla capitale del Regno Unito dal trasloco delle società finanziarie si riscontrerebbe nel real estate. "I prezzi delle case subirebbero una forte contrazione per la minore domanda accompagnata da una maggiore offerta di immobili sia in vendita che in locazione", sottolinea Trabattoni. Una vera "pacchia per i giovani", la definisce Altomonte: "Potranno improvvisamente comprare casa perché i prezzi scenderanno, ma il problema - conclude - è che non troveranno più un lavoro".

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