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Carceri: partire dalla terra per ricominciare, il grano di Rebibbia simbolo di speranza

27 maggio 2015 | 17.45
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Il presidente di Libera: "La terra è maestra di vita, impariamo a rispettarla"

(Adnkronos)
(Adnkronos)

Tornare alla terra può essere l'inizio di una nuova vita e a chi avesse qualche dubbio, basti guardare quello che le detenute della Casa circondariale femminile di Rebibbia riescono a tirare fuori da un fazzoletto di terra strappato al cemento, tra i cortili e i bracci del penitenziario romano. E' proprio lì, tra le sale colloqui e il muro di cinta, che le detenute del progetto "Terra Terra" mettono in pratica anche quello che imparano nelle aule della scuola. Una iniziativa, quella messa in piedi dalla docente e regista Giulia Merenda con il patrocinio della Regione Lazio, del Comune di Roma Capitale e dal Garante dei detenuti della regione, e presentata oggi in conferenza stampa a Rebibbia, alla presenza del presidente di "Libera" don Luigi Ciotti, che ha raccolto simbolicamente le prime spighe di grano assieme alle detenute.

"Un grano non proprio biondissimo -scherza l'organizzatrice del progetto- perché per problemi burocratici abbiamo potuto piantarlo solo il 18 dicembre". Ma il suo valore è tutto simbolico e serve a raccontare l' i mpegno e la ricerca di una rinascita. E' così che, per cinque ore al giorno, tra conigli, pecore, galline, alberi da frutto e un orto incredibilmente florido e curato, alcune decine di donne -la maggior parte di etnia rom o provenienti dal Sudamerica- hanno tirato su una vera e propria azienda agricola che, oltre ad alimentare parte del consumo interno del carcere, vende anche all'esterno i suoi prodotti, molto apprezzati, pare anche dalle guardie penitenziarie.

"Il profondo valore di questo progetto -spiega all'Adnkronos don Ciotti- è quello di fornire alle detenute lo strumento della conoscenza, che permetterà loro di diventare più responsabili. Qui natura e cultura si incontrano, è un progetto di speranza; nelle parole delle donne che hanno raccontato la loro esperienza si sente il cuore, la ricerca di affetto". Bisogna fare lo sforzo di comprendere la situazione di queste persone, molte delle quali, sottolinea don Ciotti, "sono qui per reati di droga o per furto", senza che questo voglia dire giustificarne gli sbagli. "Va sempre tenuto conto del fatto che i grandi criminali che le sfruttano, i signori della droga e i poteri forti che ci sono dietro, al contrario di queste donne, riescono invece a farla franca".

Una capacità quasi terapeutica, quella del contatto con la terra, che, continua il presidente di "Libera", "è generatrice e maestra di vita e per questo dobbiamo rispettarla e imparare a difenderla da chi la violenta e la inquina. Il mio sogno è quello di una agricoltura diversa, che diventi una democrazia della terra. La terra ha un'anima e noi, attraverso essa, dobbiamo ridare un'anima a questo pianeta".

Perché il tutto funzioni e non rimanga una bella iniziativa confinata tra le mura del carcere e un episodio isolato nella vita di queste donne, è necessario però guardare al futuro: "La politic a deve rendersi conto", conclude Don Ciotti, che anche solo in termini puramente economici, "i costi della giustizia sono molto più alti degli investimenti che servirebbero per dare continuità a progetti come questi, una cosa che noi facciamo da tanti anni, ma che finora è rimasta confinata ad interventi isolati e che richiederebbe ben altri sforzi".

Presente all'iniziativa anche Antonio Rosati, amministratore unico dell'Arsial (Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio), che ha finanziato il progetto con 10mila euro per investimenti rurali e di comunicazione: "Abbiamo deciso di impegnarci -spiega Rosati- perché dobbiamo vincere la paura e uscire da questa logica dell'austerity e dei tagli, investendo per dare una possibilità a queste donne che hanno commesso degli sbagli, lavorando per un agricoltura diversa, che guarda non tanto ai mercati, quanto, piuttosto, alla dimensione sociale".

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