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Caso Shalabayeva, dubbi delle difese su condanne superpoliziotti Improta e Cortese

15 ottobre 2020 | 20.14
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Assieme ai “presunti” sequestratori sono stati condannati per lo stesso reato anche gli allora funzionari della squadra mobile di Roma Armeni e Stampacchia, per i quali la pubblica accusa aveva evidenziato l’assenza di prove concrete circa la realizzazione del fatto, chiedendone l’assoluzione

(Foto Fotogramma)
(Foto Fotogramma)

Una sentenza ‘choc’ quella che ieri è stata inflitta in relazione al noto “caso Shalabayeva” ai superpoliziotti Renato Cortese, attuale questore di Palermo, e a Maurizio Improta, oggi a capo della Polfer. Il giudice Giuseppe Narducci, andando molto oltre le richieste fatte dal pm Massimo Casucci lo scorso 23 settembre (2 anni e 4 mesi per Cortese e 2 anni e 2 mesi per Improta) ha inflitto cinque anni ai due alti funzionari dello Stato. Occorrerà leggere le motivazioni per comprendere l’iter che ha portato i giudici a convincersi, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza degli imputati.

Assieme ai “presunti” sequestratori sono stati condannati per lo stesso reato anche gli allora funzionari della squadra mobile di Roma Luca Armeni e Fabrizio Stampacchia, per i quali la pubblica accusa aveva evidenziato l’assenza di prove concrete circa la realizzazione del fatto, chiedendone l’assoluzione. Il sequestro, secondo il tribunale di Perugia, è stato commesso anche dai poliziotti dell’ufficio immigrazione Vincenzo Tramma e Stefano Leoni, sebbene anche per loro, secondo la procura, non vi fossero prove sufficienti per ritenere configurabile il fatto. Per il giudice Stefania Lavore, che al tempo convalidò il trattenimento presso il Cie è caduta l’accusa di sequestro. Sono poi stati riconosciuti alcuni falsi, anche in capo al giudice di pace assolto per sequestro, mentre sono cadute le accuse per tutti gli imputati per una decina di capi di imputazione.

“Come insegnano i maestri del diritto penale, il processo è già di per sé una pena - affermava nelle sue conclusioni dello scorso 8 ottobre l’avvocato Ali Abukar Aio, difensore di Improta, al tempo responsabile dell’ufficio immigrazione – e lo è ancor di più quando ad essere posti sul banco degli imputati sono uomini dello Stato che hanno agito legittimamente, nel rispetto della legge e della legalità”. Dichiarazioni queste che trovarono conferma la scorsa estate nella testimonianza del Prefetto Pansa, allora capo della Polizia, che nel deporre davanti al tribunale affermò con fermezza la legittimità dell’attività di polizia giudiziaria e dei polizia amministrativa svoltasi nei giorni di fine maggio del 2013.

Dopo sette anni di indagini e “rimpalli” tra Roma e Perugia, dunque, una triplicazione delle pene rispetto alle richieste fatte dalla procura accompagnate dal mancato riconoscimento delle attenuanti proposte dallo stesso pm alla luce della caratura, della professionalità e della impeccabile condotta processuale degli imputati. Questa pena così severa per Renato Cortese, l’uomo che mise le manette ai polsi di Bernardo Provenzano, e per l’ex questore di Rimini che diresse per 7 anni l’ufficio immigrazione di Roma, lascia aperti, secondo le difese, dubbi e perplessità: perché un sequestro su cui in dibattimento non sono emersi elementi probatori? Questi ed altri interrogativi rimangono aperti e irrisolti. Interrogativi che sembrerebbero vivi anche nella coscienza della difesa della kazaka, avendo ieri affermato il professor Di Amato, legale della Shalabayeva, che “è stata fatta giustizia ma nessuno degli imputati aveva un interesse personale in questa vicenda”.

"Aspetteremo le motivazioni per presentare appello” affermano i difensori di diversi imputati. Un appello che senz’altro imporrà ai giudici di secondo grado un vaglio certosino dei motivi di una sentenza così amara contro “dei galantuomini, la punta di diamante della polizia” come definiti dall’avvocato Massimo Biffa, difensore di Stampacchia, che ha aggiunto: “Bisognerebbe essere fieri di essere rappresentati da persone come loro”.

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