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Chi è Boris Pahor, scrittore testimone degli orrori del Novecento

30 maggio 2022 | 10.28
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Lo scrittore sloveno e triestino aveva 108 anni, memoria storica delle minoranze linguistiche

(Fotogramma)
(Fotogramma)

Testimone coraggioso dei crimini perpetrati dal fascismo e voce vibrante di una minoranza linguistica perseguitata durante la seconda guerra mondiale, Boris Pahor - morto oggi nella sua casa di Trieste all'età di 108 anni - è stato un intellettuale scomodo per le sue ferme prese di posizione a difesa delle identità nazionali e culturali, vantando una produzione di una trentina di opere tra di narrativa e saggistica, iniziata nel 1948 con i racconti dal titolo "Il mio indirizzo triestino" e culminata nel suo capolavoro "Necropoli" (1967; Fazi, 2008), romanzo autobiografico sulla prigionia nel campo di concentramento di Natzweiler-Struthof (è stato tradotto in oltre venti lingue, tra cui francese, tedesco, serbo-croato, ungherese, inglese, spagnolo, italiano, catalano e finlandese). Da tempo candidato al Premio Nobel della letteratura, recentemente aveva dedicato ai lager nazisti anche l'opera "Triangoli rossi. I campi di concentramento dimenticati" (Bompiani, 2015).

Nato a Trieste il 26 agosto 1913 da genitori sloveni, all'età di 7 anni Boris Pahor assiste all'incendio del Narodni Dom, sede centrale delle organizzazioni della comunità slovena di Trieste: un'esperienza che lo segna per tutta la vita, che affiora spesso nei suoi romanzi e racconti. Finita la scuola media ed essendo stata soppressa l'istituzione slovena, frequenta, per volontà dei genitori, il seminario di Capodistria, che non termina, anche se continua a studiare teologia a Gorizia fino al 1938.

L'abbandono degli studi teologici segna anche il ritorno di Pahor a Trieste, dove inizia a frequentare la cerchia degli antifascisti sloveni. Nel 1940 viene arruolato nel Regio Esercito e inviato al fronte in Libia. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 torna a Trieste, ormai soggetta all'occupazione tedesca e in seguito si unisce alle truppe partigiane slovene che operano nella Venezia Giulia.

Nel 1955 descrive quei giorni decisivi nel romanzo "Città nel golfo" (Bompiani, 2014), con il quale diviene celebre nella vicina Jugoslavia. Tradito da una delazione, viene catturato dai nazisti, torturato dalla Gestapo e infine deportato nei lager nazisti tra il gennaio 1944 e il 1945, una vicenda tragica - rievocata nelle pagine di "Necropoli" - che ha dato un'impronta decisiva a tutta l'opera successiva.

La deportazione lo porta nei campi di concentramento di Dachau, Markirch, Natzweiler-Struthof, Harzungen e Bergen-Belsen. Quando, nell'aprile del 1945, il campo di Bergen-Belsen viene liberato dalle truppe britanniche, Pahor, con la salute fortemente minata, esce dal lager con altri tre compagni francesi. Raggiunge Parigi dove gli viene diagnosticata la tubercolosi e viene mandato in un sanatorio a Villeurs-sur-Marne, dove incontra una giovane infermiera che lo riporta alla vita attraverso l'amore. Il ritorno alla vita è stato descritto nel romanzo "Una primavera difficile" (Zandonai, 2009).

Pahor rimane nel sanatorio francese fino al mese di dicembre del 1946, quando torna a Trieste perchè la salute della sorella Marica sta peggiorando e lei vuole ancora rivederlo e, soprattutto, vuole vederlo laureato. Pahor si laurea l'11 novembre 1947, discutendo la tesi dal titolo "Espressionismo e neorealismo nella lirica di Edvard Kocbek", con l'esimio slavista Arturo Cronia (il testo è stato pubblicato dall'Ateneo di Padova nel 2010).

Il ritorno a Trieste è segnato dalle lotte politiche per il destino della città, dalla scissione provocata dalla risoluzione dell'Informburo nel 1948 e che segna la frattura tra Tito e Stalin, dalla situazione precaria in cui Pahor si ritrova a vivere.

Collabora da subito alle riviste "Razgledi" e alle successive "Tokovi" e "Sidro", di cui è cofondatore e direttore. La situazione politica e la crisi intima di questi anni sono state descritte da Pahor nel romanzo "Dentro il labirinto" (Fazi, 2011). Nel 1948 esce la sua prima silloge di prose brevi dal titolo "Il mio indirizzo triestino", da cui, nel 2010, è stata tratta una sceneggiatura per la regia di Giorgio Pressburger.

Il 30 ottobre 1952 si sposa con Franciska Radoslava Premrl (1921-2009), scrittrice e traduttrice, sorella dell'eroe nazionale sloveno Janko Premrl, dalla cui unione sono nati i figli Maja e Adrijan.

Ne 1953 Pahor entra in ruolo come insegnante di letteratura slovena e poi di quella italiana alle scuole medie inferiori e quindi a quelle superiori con lingua d'insegnamento slovena a Trieste, incarico che ha ricoperto fino al 1975.

Dal 1966 al 1991 Pahor ha diretto la rivista "Zaliv" che diviene, negli anni, unica tribuna slovena libera e indipendente in cui Pahor accoglie anche autori della dissidenza e della diaspora politica slovena. Nel contesto della rivista Pahor istituisce anche una collana di pubblicazioni di interesse perlopiù storico-letterario. Nel 1975 la collana pubblica un libro, firmato dallo scrittore Alojz Rebula e dallo stesso Pahor, dal titolo "Edvard Kocbek: testimone della nostra epoca", in cui Kocbek, capo dell'ala cristiano-sociale del Fronte di liberazione sloveno, denuncia gli eccidi dell'immediato dopoguerra, perpetrati dall'esercito jugoslavo e con la connivenza delle truppe britanniche nei confronti di migliaia di collaborazionisti sloveni.

Questo j'accuse, considerato uno dei documenti più importanti della storia slovena del secondo dopoguerra, provoca nella Jugoslavia comunista una reazione politica di proporzioni enormi, con echi europei: a Pahor viene vietato per due volte e per lunghi periodi l'ingresso in Jugoslavia. Sono anni di isolamento, in cui Pahor diviene persona non grata, le sue opere non sono prese in considerazione dalla critica, vessato e diffamato anche da alcuni suoi vecchi collaboratori che si rivelano persone di fiducia del regime titino fuori dai confini jugoslavi.

Nel 1986 a Parigi, in occasione della mostra "Trouver Trieste" al Centre Pompidou, Pahor conosce il filosofo Evgen Bavcar che gli presenta il suo primo editore francese. Il capolavoro "Necropoli" cominciò così la sua ascesa nel mondo (oltre venti traduzioni), tanto da essere considerato un grande classico della letteratura del Novecento. Scritto in sloveno nel 1967, "Necropoli" appare in traduzione italiana di Ezio Martin dalle Edizioni del Consorzio culturale del Monfalconese nel 1997 e nella sua versione definita da Fazi nel 2008 (traduzione di Ezio Martin, revisione di Valerio Aiolli, prefazione di Claudio Magris).

Tra i suoi libri figurano: "Così ho vissuto. Biografia di un secolo" (con Tatjana Rojc, Bompiani, 2013), "Figlio di nessuno. Autobiografia senza frontiere" (Rizzoli, 2012), "Dentro il labirinto" (Fazi, 2011), "Qui è proibito parlare" (Fazi, 2009), "Una primavera difficile" (La nave di Teseo,2016), "Tre volte no. Memorie di un uomo libero" (Rizzoli, 2009).

Pahor ha vinto numerosi riconoscimenti: il Premio Internazionale Viareggio-Versilia (2008); il Premio Preseren, maggiore onorificenza slovena nel campo culturale (1992); il Premio San Giusto d'Oro (2003); il Premio Napoli (2008) per "Necropoli"; il Premio Letterario Internazionale Alessandro Manzoni - Città di Lecco per l'autobiografia "Figlio di nessuno" (2012). Nel 2007 è stato insignito con la onorificenza francese della Legion d'onore e nel 2008 gli è stato conferito il Premio Resistenza per il libro "Necropoli" ed è stato eletto "Libro dell'Anno" da una giuria di oltre tremila ascoltatori del programma di Radio3 Rai, dedicato ai libri, Fahreneit.

(di Paolo Martini)

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