La Cina raziona l'uso di corrente elettrica. Dalle fabbriche alle case. Nelle città, nei distretti industriali. Gli ascensori sono fuori uso, i semafori sono spenti, denunciano dalle province del nordest, da Liaoning, Jilin e Heilongjiang, come riporta la Bbc. Una "interruzione di corrente inaspettata e senza precedenti", ha scritto il Global Times. Un problema non solo per il nordest, ma anche per altre decine di province, ha riconosciuto il giornale, voce all'estero del governo di Pechino, citando in particolare Jiangsu e Guangdong, importante centro industriale.
Dopo Evergrande, sulla strada del default, è "un segno di un altro assestamento cinese", l'"emergere di un altro problema strutturale da affrontare il prima possibile per limitare i danni", osserva Francesco Sisci, sinologo, professore di geopolitica alla Luiss, che esclude per ora rischi di instabilità sociale, ma parla di una "difficoltà a risolvere rapidamente tali questioni", poiché nel caso dell'energia il "vero problema è la distorsione del mercato".
All'origine di tutto, spiega, c'è il fatto che "ci sono i limiti sui prezzi di vendita dell'energia" per "controllare le spinte inflattive sia per i consumatori sia la produzione industriale". Infatti, prosegue, "l'aumento del costo dell'energia porterebbe a un aumento dei prezzi finali delle merci cosa che metterebbe a rischio almeno in parte le esportazioni cinesi e gli introiti che ne derivano".
D'altro canto c'è "l'aumento generalizzato dei prezzi del gas, del carbone da importare" spinti in alto dalla ripresa globale dalla crisi del coronavirus. A questo si aggiungono "altri due elementi" per la Cina di Xi Jinping che lo scorso anno all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha annunciato il 2030 come obiettivo per raggiungere il picco delle emissioni di anidride carbonica.
Primo, "i limiti alla produzione di Co2, i limiti all'uso di carbone sporco preferendo il gas, e la tensione commerciale con l'Australia e quindi i limiti alle importazioni cinesi di carbone australiano che è meno inquinante rispetto al carbone cinese". In tale contesto, prosegue Sisci, "se aumentano i costi di produzione dell'energia non aumentano i prezzi di vendita della stessa energia. Quindi i produttori di energia non hanno incentivo a produrre. Da qui la mancanza di elettricità sul mercato".
La soluzione "non è facilissima" perché, rileva, "togliere i limiti al prezzo di vendita dell'energia farebbe aumentare l'inflazione che colpirebbe sia i consumatori cinesi ma anche le esportazioni cinesi innescando un circolo vizioso. Il costo della vita in Cina aumenterebbe, mentre le entrate dall'estero rischiano di ridursi". Così, prosegue il sinologo, "lo Stato potrebbe intervenire dando dei sussidi ai produttori di energia" ma ci sono "due controindicazioni", si rischia di "aprire la porta a possibili effetti di corruzione" e l'onere per "lo Stato di sobbarcarsi costi forse importanti per non si sa quanto tempo dal momento che non è chiaro se e quando tornerà ad abbassarsi il prezzo del gas".
Uno "stress per le casse dello Stato a cui si somma la questione non risolta di Evergrande e di tutto il settore immobiliare", prosegue Sisci, sottolineando come la Cina stia perdendo il "vantaggio che aveva in questo anno passato, quando il mondo era fermo mentre Pechino era in ripresa". Oggi invece "l'economia del mondo sta ripartendo" mentre il gigante asiatico "rimane chiuso, con forti misure di restrizioni ai viaggi e ai movimenti con l'estero, cosa che potrebbe incidere anche poi sui commerci".
Per ora comunque, secondo l'esperto, "l'impatto esterno potrebbe essere limitato". "La moneta cinese (Renminbi) non è convertibile, quindi non ci sarà una fuga di capitali - osserva - Inoltre la Cina ha oltre 3.000 miliardi di dollari di riserve e grandi surplus commerciali che possono proteggere la moneta. Lo Stato poi ha entrate che derivano anche dalle tasse indirette dalla importante differenza di interessi tra depositi e crediti elargiti dalle banche". Ma, conclude, "l'accumulo di problemi strutturali, se non affrontato bene e in fretta, potrebbe diventare preoccupante, specie in un clima di sfiducia crescente politica e strategica intorno a Pechino".