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Energia: Clini, dalla Cop21 a nuovi equilibri geopolitici

16 giugno 2016 | 15.10
LETTURA: 12 minuti

di Corrado Clini

(Fotolia)
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di Corrado Clini

L’accordo di Parigi, sottoscritto a New York in occasione della giornata della Terra, è entrato nella fase di attuazione. Ovvero tutte le nazioni del pianeta, pur se con impegni diversificati, devono concorrere alla riduzione delle emissioni di CO2 e degli altri gas ad effetto serra in modo da evitare che l’aumento della temperatura media superi entro la fine del secolo 2°, o meglio 1,5°. Dagli impegni politici si tratta ora di passare alle misure concrete. E non c’è molto tempo.

2040 : ridurre del 50% il peso dei combustibili fossili nei consumi energetici globali

Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, per attuare l’accordo di Parigi entro il 2040 i combustibili fossili non dovranno coprire più del 50% dei consumi energetici globali, come primo step di una traiettoria che dovrebbe portare alla “decarbonizzazione” dell’economia entro i successivi 30 anni. I dati più recenti mettono in evidenza che attualmente i combustibili fossili coprono l’86% della domanda globale di energia.


Mentre le previsioni dell’Agenzia Internazionale dell’Energia indicano che, nonostante la tendenza alla riduzione dei consumi energetici nei paesi sviluppati del’area OECD, tra il 2016 e il 2040 la domanda globale di energia è destinata ad aumentare di oltre il 35% per supportare la crescita economica dell’India, della Cina, dei paesi emergenti, e di quelli più poveri dell’Asia e dell’Africa dove 1,2 miliardi di persone non hanno ancora accesso all’elettricità.


La crescita della domanda fino al 2040 non riguarda solo il settore elettrico, ma anche gli usi finali dell’energia (non solo elettrica) in tre settori chiave:

- il riscaldamento e raffreddamento, che coprono attualmente oltre il 30% della domanda, destinati a crescere per sostenere il “salto di qualità” verso condizioni di vita migliori in quasi 2/3 del pianeta;

- il trasporto, che copre oggi almeno il 25% della domanda, con una crescita vertiginosa nei prossimi 25 anni nelle economie emergenti e nei paesi in via di sviluppo : è previsto un aumento di 900 milioni di autoveicoli circolanti, di cui la metà in India e Cina;

- le attività industriali, che oggi coprono circa il 25% della domanda e che aumentano in tutte le economie emergenti e in via di sviluppo.

I dati suggeriscono che per ridurre del 50% il consumo di combustibili fossili nel corso dei prossimi 25 anni le fonti rinnovabili e il nucleare dovrebbero coprire totalmente la nuova domanda di energia, mentre elettricità e idrogeno dovrebbero essere i “combustibili” prevalenti per i 900 milioni di nuovi autoveicoli.

E la struttura dei consumi energetici attuali dovrebbe essere orientata verso una progressiva “decarbonizzazione”, con l’obiettivo prioritario di ridurre drasticamente l’intensità di carbonio della produzione di energia elettrica ( da 530 gr CO2/Kwh a 300 gr) attraverso la modifica del mix energetico verso le fonti rinnovabili e il gas naturale, e l’impiego della tecnologia della “cattura e stoccaggio del carbonio” (Ccs) laddove resti prevalente l’uso del carbone.

Per raggiungere questo obiettivo con l’orizzonte 2040, a livello globale sarebbe necessario adottare alcune misure “di base”, parallele e contestuali sul “prezzo del carbonio” da un lato e sulla cooperazione tecnologica internazionale dall’altro:

- l’introduzione di una carbon tax globale, per usare la leva del prezzo come driver degli investimenti nelle soluzioni alternative. Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia il valore della carbon tax dovrebbe essere progressivamente incrementato dagli attuali 8$/tonnellata fino a 140$ nel 2040, pur con variazioni tra il prezzo nei paesi OECD, quello in Cina e India, e quello negli altri paesi;

- l’eliminazione rapida degli incentivi ai combustibili fossili (nel 2014 500 miliardi $ );

- l’introduzione nei bilanci dei paesi che hanno sottoscritto l’impegno di Parigi di una soglia minima e progressiva per il finanziamento pubblico alla ricerca e sviluppo delle tecnologie a basso contenuto di carbonio (secondo la IEA servono almeno 13.000 miliardi $);

- il superamento delle barriere tariffarie e doganali al trasferimento delle tecnologie a basso contenuto di carbonio;

- l’apertura, presso le Istituzioni finanziarie internazionali, e presso le banche che operano nei mercati internazionali, di linee di credito agevolato e a lungo termine a favore: delle economie emergenti e in via di sviluppo per la “decarbonizzazione” della matrice energetica mediante l’impiego delle fonti e tecnologie a basso contenuto di carbonio; dei paesi produttori di petrolio per l’eliminazione della combustione del gas associato all’estrazione di petrolio (gas flaring) e la riconversione della struttura delle economie “olio dipendenti”.

Queste sono le condizioni “infrastrutturali” per consentire il ri-orientamento di una parte degli investimenti (68.000 miliardi $) destinati al settore energetico nei prossimi 25 anni : secondo la Iea almeno 45.000 miliardi $ dovrebbero essere destinati allo sviluppo delle tecnologie a basso contenuto di carbonio, all’efficienza energetica, alle fonti rinnovabili.

Queste sono anche le condizioni che possono sostenere gli impegni delle due economie dalle quali dipende in gran parte il futuro della struttura energetica del pianeta, la Cina e l’India.

Cina & India


Cina

La Cina ha ridotto negli ultimi 10 anni l’intensità di carbonio della propria economia del 20% ed è impegnata a raggiungere il 48% entro il 2020. Mentre l’impiego del carbone risulta in diminuzione e crescono invece le fonti rinnovabili : nel 2015 la Cina ha investito 110 miliardi $ nelle fonti rinnovabili, il doppio degli Usa. La Cina è oggi anche il più importante mercato per le auto elettriche.

La Cina insomma è nella giusta strada per il disaccoppiamento del prodotto interno lordo dai consumi energetici e dalle emissioni di carbonio, ma il percorso è ancora molto lungo e richiede il supporto di un contesto internazionale favorevole alla decarbonizzazione.


India

Circa il 25% dell’aumento della domanda globale di energia proverrà dall’India. Attualmente il consumo procapite di energia è pari a 1/3 della media mondiale e inferiore di oltre 6 volte al valore delle economie sviluppate, mentre oltre 300 milioni di persone non hanno accesso all’elettricità.

L’India punta per i prossimi 15 anni ad una crescita di almeno il 7% all’anno che sarà sostenuta da un forte aumento dei consumi energetici. Il piano energetico indiano prevede che oltre il 40% della produzione di elettricità venga coperto dalle fonti rinnovabili e dal nucleare, mentre il resto della fornitura di elettricità sarà assicurato dal consumo di carbone destinato a quadruplicare nel 2030 se non saranno disponibili fonti alternative.

Senza considerare che l’aumento del parco autoveicolare di almeno 250 milioni di veicoli sarà accompagnato da una crescita di oltre il 90% dei consumi dei prodotti petroliferi rispetto ai livelli attuali. La sfida della “decarbonizzazione” dell’India è ancora più complessa di quella della Cina, e richiederà un consistente impegno per la cooperazione tecnologica e finanziaria internazionale.


Le economie olio dipendenti

Senza l’adozione delle misure di supporto alle economie “olio dipendenti” possiamo attenderci impreviste e pericolose conseguenze geopolitiche nelle aree “più calde” del pianeta. Algeria, Arabia Saudita, Egitto, Emirati, Iran, Iraq, senza considerare la Libia e gli altri paesi africani da Angola a Nigeria e Sudan saranno fortemente colpiti dalla progressiva marginalizzazione dei combustibili fossili.

La strategia globale sui cambiamenti climatici deve considerare come priorità la sicurezza e lo sviluppo sostenibile di questi paesi, per farli uscire senza “danni collaterali” dalla dipendenza dal petrolio.

Il caso dell’Iran

L’accordo per la fine delle sanzioni contro l’Iran è stato sottoscritto il 16 gennaio 2016, un mese dopo il “Paris Accord”. La fine delle sanzioni ha avuto e avrà in futuro l’effetto di aumentare le attività estrattive di olio e gas: nel 2016 è prevista una produzione di circa 3,3 milioni di barili al giorno, che crescerà fino a 3,7 nel 2017, contro i 2.8 milioni del 2015.

Ma l’Iran punta a raggiungere nel breve periodo lo stesso livello “pre-sanzioni” di 4,5 milioni barili/giorno, comunque al di sotto del potenziale stimato di 7 milioni ( i livelli degli anni 70’).


L’aumento della produzione di olio è in controtendenza rispetto a Paris Accord, perché:

- facilita la riduzione dei prezzi nel mercato globale;

- rafforza la competizione dei combustibili fossili con le fonti alternative.

Tuttavia l’Iran è impegnato a ridurre le emissioni di carbonio.

Secondo quanto previsto dalla Intended Nationally Determined Contribution, l’Iran intende ridurre le proprie emissioni del 12% entro il 2030. A questo scopo sono necessarie due “pre condizioni” : la fine effettiva delle sanzioni da un lato, e la cooperazione tecnologica e finanziaria internazionale dall’altro.

Le priorità individuate dall’Iran riguardano:

•il progressivo recupero, con l’eliminazione della combustione (gas flaring), del gas associato all’estrazione dell’olio e il suo riuso nella produzione di elettricità;

- la riduzione delle perdite dalla rete di distribuzione di gas naturale;

- l’efficienza negli usi finali dell’energia;

- l’aumento della quota di fonti rinnovabili e nucleare nel portafoglio energetico.

Gli investimenti necessari sono stimati tra 60 e 70 miliardi $/anno, di cui 2/3 da Istituzioni finanziarie internazionali, da investitori privati e dalla cooperazione internazionale. La riduzione dell’intensità di carbonio dell’economia dell’Iran dopo la fine delle sanzioni è dunque un’impegnativa sfida internazionale, difficile ma obbligata per la protezione del clima e la sicurezza.

Economia e geopolitica al centro dell'agenda

Se vogliamo mantenere l’obiettivo di Parigi non basta dunque monitorare nei prossimi 5 anni l’attuazione degli impegni assunti da ogni paese (INDC), né tantomeno coltivare l’illusione europea che azioni unilaterali possano avere significativi effetti globali ( le emissioni cumulative UE sono poco più del 10% del totale).

E’ necessario affrontare in modo chiaro i nodi economici, tecnologici e sociali che condizionano le necessarie trasformazioni del sistema energetico globale, anche perché, come ha ben chiarito il Panel Intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (IPCC), gli effetti attesi dagli INDC sono comunque lontani dall’obiettivo dei 2 gradi, e ancora di più da 1,5 gradi (la linea verde di 450 scenario).

IPCC – GLOBAL ENERGY-RELATED CO2 EMISSIONS BY SCENARIO


Che cosa può fare l'Europa

L’Europa è stata il driver principale dell’iniziativa globale sui cambiamenti climatici. Chi scrive ha coordinato, nel 1990, il primo rapporto congiunto dei Ministri europei dell’Ambiente e dell’Energia sui cambiamenti climatici.

Purtroppo l’evoluzione delle politiche europee si è concentrate progressivamente sulle proprie regole interne, lasciando in secondo piano l’esigenza di una strategia globale capace di coinvolgere tutte le principali economie del pianeta.

Da questo nasce il fallimento del Protocollo di Kyoto, ben rappresentato dalla disastrosa Conferenza sui Cambiamenti Climatici di Copenaghen del 2009, che ha respinto al mittente la pretesa europea di imporre a tutti le proprie regole.

L’attuazione dell’accordo di Parigi rappresenta l’occasione per l’Europa di riprendere la leadership internazionale.

Decarbonizzazione e denuclearizzazione: il paradosso della Germania

Nel 2015, in linea con gli obiettivi della strategia energetica nazionale Energiewende, le fonti rinnovabili hanno coperto circa il 35% della domanda elettrica.

Tuttavia, sempre nel 2015, le emissioni di carbonio hanno avuto una lieve crescita rispetto al 2014, segnando un’inversione di tendenza rispetto al trend degli ultimi 25 anni ( – 27%), e rischiando di compromettere l’obiettivo di riduzione del 40% entro il 2020.

La causa di questa contraddizione va ricercata nella combinazione di diversi fattori. Da un lato 2015 la crescita delle fonti rinnovabili ha determinato un eccesso di produzione di elettricità, nonostante la progressiva riduzione del nucleare coerentemente con la decisione della Germania di “uscire” dall’energia nucleare

Dall’altra parte, per far fronte alla variabilità e discontinuità delle fonti rinnovabili, le centrali a carbone sono state impiegate per assicurare la continuità della fornitura di elettricità alla rete.

In questo contesto, nell’autunno dello scorso anno, è entrata in esercizio una nuova centrale a carbone di 1.600 MW.

Ma le centrali a carbone, oltre a stabilizzare la fornitura di elettricità nella rete interna, esportano l’elettricità in eccesso nei paesi vicini : secondo il Fraunhofer Institute di Berlino l’export vale 2 miliardi €/anno. In altre parole, la crescita delle fonti rinnovabili e l’eliminazione del nucleare hanno rafforzato il ruolo del carbone.

L’uscita da questa contraddizione, per la Germania e per l’intera Europa, passa attraverso due misure “chiave”: da un lato lo stoccaggio di “alta capacità” dell’elettricità prodotta da fonti rinnovabili per assicurare la continuità della fornitura alla rete, e dall’altro l’integrazione e la realizzazione di “super reti” europee per il trasporto dell’elettricità prodotta da fonti rinnovabili.

Queste misure sono un’infrastruttura necessaria per ridurre progressivamente il ruolo del carbone e degli altri combustibili fossili nella generazione di elettricità in Europa, e richiedono investimenti prioritari nel sistema energetico europeo: secondo “Highway2050”, un’iniziativa promossa dalla Commissione Europea, nei prossimi 25 anni saranno necessari investimenti compresi tra 100 e 400 miliardi €.

Una nuova iniziativa europea

L’Europa dovrebbe promuovere una “piattaforma di dialogo” , per affrontare contestualmente tutti i temi dell’economia e geopolitica dei cambiamenti climatici che Parigi ha eluso, e ricercare le modalità per un accordo globale di lungo termine sulle regole e sui meccanismi finanziari.

Dovrebbero partecipare i paesi che hanno sottoscritto l’accordo di Parigi, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, Opec, il Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Asian Infrastructure Investment Bank, e le altre Banche di Sviluppo.

L’Italia, anche per la circostanza di un’italiana “ministro europeo degli esteri”, e per il suo ruolo regionale nel mediterraneo e nel medio oriente, può essere il promotore di questa iniziativa.

Dall’altra parte l’Europa dovrebbe promuovere un “Hub delle tecnologie a basso contenuto di carbonio”, con la partecipazione di tutte le imprese europee che operano nel mercato mondiale dell’energia e dell’automotive, cofinanziato da tutti gli Stati Membri con una quota minima “obbligatoria” del proprio Pil.

L’ambizione dovrebbe essere quella di creare il motore tecnologico e industriale della transizione dell’economia globale verso la decarbonizzazione.

Da un punto di vista tecnico non è un’impresa difficile, perché molte imprese europee sono già molto avanti in questa prospettiva. Da un punto di vista economico i vantaggi sono intuibili, anche perché è ormai evidente la competitività delle soluzioni a basso contenuto di carbonio: secondo il recente rapporto “Climate Change Policy, Innovation and Growth”, le tecnologie a basso contenuto di carbonio offrono ampi margini di redditività rispetto alla tecnologie “tradizionali”, come dimostra l’esperienza di grandi imprese europee a partire da Siemens.

The impact of low carbon innovation on profits, competitiveness and growth


L’esperienza dell’Agenzia Spaziale Europea è un buon precedente.

Ma certo non mancano le difficoltà, perché – come già sperimentato– la messa in comune del valore aggiunto in conoscenza e tecnologie dei risultati in ricerca e sviluppo di imprese che hanno già investito nell’innovazione richiede la condivisione di scelte e impegni che in molte altre situazioni non sono state rispettate da tutte le parti in causa.

Non è facile, e non sarà una passeggiata, ma la strada per rafforzare la competitività e la leadership dell’Europa passa anche attraverso il “salto” nella capacità di innovare attraverso le sinergie tra le imprese europee e la moltiplicazione degli “spill over” per la “decarbonizzazione”.

L’Italia, il secondo paese manifatturiero europeo, ha tutto l’interesse a promuovere questa iniziativa, a condizione di assicurare credibilità e continuità dei suoi impegni.

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