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Coronavirus: italiana prima paziente positiva in Spagna, 'ora sto bene ma ancora in isolamento'

23 marzo 2020 | 17.34
LETTURA: 3 minuti

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La "vista" di Giulia dalla stanza dell'Hospital Clinic

di Silvia Mancinelli

La prima paziente positiva al coronavirus di tutta la penisola iberica è una 36enne italiana, originaria della provincia di Siena, che da Milano - dove era stata per lavoro - era tornata a Barcellona dove vive. Oggi Giulia (il nome è di fantasia per tutelarne la privacy, ndr) è a casa, finalmente in buone condizioni di salute, reduce da tre settimane e due giorni di ricovero e ben nove tamponi. "Sono tornata a casa mercoledì scorso ma ancora sono in isolamento - racconta all'Adnkronos - perché ancora fondamentalmente nessuno ha capito nulla di questo virus. Non si sa se dopo averlo passato si è immuni o ancora corre dei rischi. Così oggi io sono a casa in una stanza, il mio ragazzo col quale convivo in un’altra".

Giulia, che a Barcellona lavora per una nota azienda di abbigliamento intimo, la settimana del 20 febbraio (quando in Italia era esploso il primo caso di Codogno) si trovava a Milano per delle riunioni. "Il venerdì avevo il volo da Orio al Serio e già si iniziava a respirare un'aria tesa, c'era un po' di nervosismo, si vedeva gente con le mascherine - racconta - ma la sera sono tornata a Barcellona. Domenica ho iniziato a sentirmi un po' strana, come quella che si prova quando sta per arrivare l'influenza. Non avevo ancora la febbre, quindi lunedì sono andata al lavoro anche se con la tosse e dolori articolari. La febbre per me è stato un sintomo successivo. In ufficio più di una persona ha iniziato a fare battute sulla mia tosse, essendo tornata dall'Italia, così, quando sono uscita, sono andata al pronto soccorso. Il punto è che in Spagna allora c'erano solo due casi, uno nelle Isole Canarie e uno alle Baleari, tra l'altro entrambi guariti, ma nella penisola iberica non c'era stato allora nemmeno un contagiato quindi non c’era nemmeno un protocollo da seguire".

Da lì è iniziato il calvario di Giulia, sola e con la batteria di entrambi i cellulari scarica, senza la possibilità di avvertire i genitori, all'oscuro di quanto stava accadendo. "Quando mi hanno visitato, con tutte le precauzioni del caso, non avevo ancora la febbre e i polmoni stavano bene - continua - Ho deciso di andare all’Hospital Clinic dove avevano la possibilità di fare il tampone, sono arrivata alle 21,30 di lunedì 24 febbraio e lì ci sono rimasta. Inizialmente mi hanno fatto un colloquio, il tampone verso la mezzanotte ancor prima che aumentasse la febbre. L'indomani non arrivavano le notizie, ma vedevo il dottore che per entrare nella mia stanza si bardava come un astronauta. E' stato allora che hanno attivato il protocollo, intervenuto il dipartimento di salute pubblica, volevano sapere dove fossi stata e come ci fossi arrivata, le persone con cui ero entrata in contatto, sia a lavoro che a casa, messe poi in quarantena".

Il trasferimento in terapia intensiva è stato il passo immediatamente successivo, sebbene Giulia non abbia mai avuto la necessità di essere attaccata a un respiratore. "Per la mia esperienza - dice - è stata una influenza mediatica più lunga e più forte. Dopo di me ci sono stati pochi altri casi a Barcellona, tra l'altro tutte persone giovanissime, chi arrivato per lavoro chi dalla fashion week di Milano. Il protocollo lo hanno sviluppato con noi. Da dentro l'ospedale ho assistito a una crescita di casi tragica, da un giorno all'altro sono aumentati tantissimo. A me hanno fatto nove tamponi, a dimostrazione che non esiste una degenza tipica: ci sono state persone uscite dall'ospedale dopo una settimana, dieci giorni e io, invece, che il primo tampone negativo l'ho avuto quando ero ricoverata già da due settimane e mezzo".

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