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"Così ci torturavano in Libia", il racconto dell'orrore di una vittima

16 settembre 2019 | 07.32
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L'uomo è originario del Camerun, tra le lacrime ha raccontato le violenze subite. Per le violenze sono stati fermati tre uomini

Immagine di repertorio (Afp)
Immagine di repertorio (Afp)

di Elvira Terranova


Torture, minacce, violenze di ogni genere. Ecco i racconti delle vittime dei tre aguzzini fermati all'alba di oggi dalla Squadra mobile di Agrigento, diretta dal vicequestore aggiunto Giovanni Minardi, su disposizione della Dda di Palermo e della Procura di Agrigento. "Io sono un cittadino del Camerun. A causa di problemi con la mia famiglia, ho deciso di lasciare il mio paese il 7.3.2018. Ho raggiunto la Nigeria ma ho avuto modo di constatare le difficili situazioni della vita, ragion per la quale ho deciso di trasferirmi in Niger. Da lì mi sono trasferito in Algeria, dove sono arrivato ad aprile del 2018. Da questo ultimo Stato mi sono trasferito nuovamente in Niger e poi in Libia, dove sono arrivato il 10.05.2018". Inizia così il lungo racconto di una delle vittime dei trafficanti di uomini e torturatori fermati all'alba di oggi.

"In Niger, per poter raggiungere la Libia, io con altri migranti ci siamo rivolti ad un organizzatore, alla quale abbiamo pagato, ognuno di noi, la somma equivalente di 32 euro, per poter raggiungere la Libia - racconta - L’organizzatore al quale abbiamo pagato la somma di denaro è un cittadino del Niger, soprannominato “Aladì’, il quale può avere circa 50 anni, è alto, molto magro, ed aveva i baffi. Lo stesso, per il nostro trasporto, si è avvalso di propri collaboratori che hanno utilizzato un autoveicolo, molto simile ad una motoape. All’atto del nostro arrivo a Saba (Libia), tutti i migranti, eravamo 5 uomini e 4 donne, venivamo condotti all’interno di un ampio capannone e poi chiusi a chiave. Sostanzialmente siamo stati venduti".

"All’atto del nostro arrivo, all’interno di quel capannone vi erano tanti altri migranti, circa 20-30 persone, uomini e donne.Tutte le donne che erano con noi, una volta alloggiati all’interno di quel capannone sono state sistematicamente e ripetutamente violentate dai 2 libici e 3 nigeriani che gestivano la struttura. Preciso che da quella struttura non si poteva uscire. Eravamo chiusi a chiave - racconta ancora - I due libici e un nigeriano erano armati di fucili mitragliatori, mentre gli altri due nigeriani avevano due bastoni".

"Le condizioni di vita, all’interno di quella struttura, erano inaudite. Ci davano da bere acqua del mare e, ogni tanto, pane duro. Noi uomini, durante la nostra permanenza all’interno di quella struttura venivamo picchiati al fine di sensibilizzare i nostri parenti a pagare loro delle somme di denaro in cambio della nostra liberazione - spiega la vittima- Di fatto avveniva che, i predetti organizzatori ci mettevano a disposizione un telefono col quale dovevamo contattare i nostri familiari per dettare loro le modalità con il quale dovevano pagare le somme di denaro pretese dai nostri sequestratori. Ho avuto modo di apprendere che la somma richiesta dagli organizzatori in cambio della liberazioni di ogni di noi, si aggirava a circa 10000 dinari libici. Io, malgrado incitato a contattare i miei familiari, mi sono sempre rifiutato".

"Proprio per questo motivo sono stato oggetto di bastonate da parte loro. Preciso che, in occasione di un mio rifiuto, un nigeraino, con il calcio della pistola, dopo che mi ha immobilizzato il pollice della mia mano destra su un tavolo, mi ha colpito violentemente al dito, fratturandolo - racconta ancora la vittima tra le lacrime - Durante la mia permanenza all’interno di quella struttura ho avuto modo di vedere che gli organizzatori hanno ucciso a colpi di pistola due migranti che avevano tentato di scappare. Non so indicare chi degli organizzatori ha fatto fuoco".

"Io, contrariamente a tanti altri migranti, malgrado stimolato, non ho pagato alcuna somma di denaro. Sono riuscito a sottrarmi alla prigionia poiché sono riuscito a scappare, approfittando del fatto, che, un venerdì, non eravamo vigilati, poiché i nostri sequestratori si sono recati a pregare. Approfittando di tale situazione, io ed altri 10 migranti siamo scappati. Era la fine di maggio del 2018. Non so indicare i nomi dei due libici e dei tre nigeriani". racconta ancora.

L'uomo ha detto di essere stato portato "con l’inganno da parte di un taxista il quale, molto probabilmente, aveva venduto lo Zanga e i suoi compagni di viaggio". "A Saba, una volta fuori dalla prigione, abbiamo incontrato un senegalese “il vecchio”, del quale non so il nome, il quale, messo al corrente che volevamo raggiungere l’Europa, ci ha consigliato di lasciare Saba e di recarci subito a Zawyia - racconta - In effetti, con mezzi di fortuna, io e gli altri migranti, siamo giunti a Zawyia, era il 5.6.2018. Dovendoci recare in via Elmoktar, poiché ci avevano detto che lì si poteva trovare lavoro, abbiamo chiesto ad un tassista di accompagnarci. Purtroppo, il tassista, approfittando della nostra buona fede, ci portava in un’altra destinazione, ovvero in una base militare. L’area era recintata con degli alti muri. Accedevamo tramite un grande portone blu. All’interno, l’area si presentava divisa per settori: a destra vi era la direzione e a sx vi erano gli alloggi delle guardie. Entrando a sx vi era l’area delle donne, poi quella degli africani dell’est (eritrea e Etiopia), e poi quella dei sub-sahariani. A destra vi era un campo di calcio dove vi erano tanti bambini, poi un container dei medici ed infine un container dell’OIM. In quest’ultimo container vi era un libico, tale Mohamed, che aveva un barba lunga e vestita in abiti militari, in quanto sulle spalline aveva una stella e tra barre".

"Egli aveva un aiutante, verosimilmente sudanese, che indossava la casacca dell’Oim e che parlava inglese e arabo - racconta ancora - Tale area era collegata, tramite un portone, a un’altra base militare operativa, in quanto lì vi erano i militari ed anche i carri armati. Tale base era in prossimità del mare e di una raffineria. All’interno potevamo essere circa 500 persone, uomini, donne e circa 15 bambini. Le guardie non erano militari, erano 8 persone". "Senza dubbio, il capo egiziano Mohamed, il quale alleva un gregge proprio accanto alla caserma militare, è il più terribile. Posso dire che durante la mia permanenza all’interno di quella struttura, a causa delle mie rimostranze contro la mia ingiusta detenzione, sono stato più volte picchiato. Ho subito delle vere e proprie torture che mi hanno lasciato delle cicatrici sul mio corpo. Specifico che sono stato frustato tramite fili elettrici. Altre volte preso a bastonate, anche in testa - racconta ancora la vittima - Al mio pestaggio, avvenuto in diverse occasioni, hanno partecipato, il capo egiziano Mohamed, Yassine, un gambiano e il sudanese del quale non so il nome".

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