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Calcio: da Ciro Caruso a Dante Bertoneri, quando il talento non basta a diventare Totti e Cannavaro

26 maggio 2015 | 12.30
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La storia di 10 giovani calciatori che, tra gli anni '80 e '90, hanno illuminato i campi del calcio giovanile e che, al momento del salto definitivo, si sono bloccati. Zoff: "Per sfondare ci vuole testa". Moggi: "Serve talento e carattere"

di Federico Finocchi

Calcio: da Ciro Caruso a Dante Bertoneri, quando il talento non basta a diventare Totti e Cannavaro

di Federico Finocchi

E' la storia di un urlo strozzato in gola. Di un sogno sfiorato da riporre nel cassetto. Di quello che poteva essere e non è stato. E' la storia di dieci giovani calciatori destinati a diventare famosi ma che, famosi davvero, non lo diventeranno mai. Talenti assoluti, tutto estro, tecnica, genialità. Dribbling, corsa, e tiro che scansati. Ragazzi su cui scommettere ad occhi chiusi. Giovani promesse che, tra gli anni '80 e '90, hanno illuminato i campi del calcio giovanile nazionale ma che, al momento del salto definitivo, si sono bloccati. Addio San Siro, Olimpico, San Paolo, si prende l'ascensore e si scende. Giù in serie C, D, dilettanti. A volte si imbocca direttamente la porta di uscita del circo pallonaro. Uno stop secco, improvviso, ma soprattutto inaspettato, anche per chi mangia pane e pallone da una vita: maestri di calcio, procuratori, direttori sportivi di lungo corso.

“Se penso a un talento inespresso – dice all'Adnkronos Sergio Vatta, allenatore definito da molti il 'Mago', proprio per la sua capacità di crescere i giovani talenti – il primo nome che mi viene in mente è Dante Bertoneri.

Un calciatore fantastico, ma dalla personalità acerba. La sua uscita dal mondo del calcio è stata una sconfitta per tutti”. Bertoneri, classe '63, fa l'esordio in serie A nel Torino a soli 17 anni. “Grande visione di gioco, ambidestro, capacità di superare l'uomo, insomma, un centrocampista completo”. Tutta una carriera davanti, che subisce però uno stop improvviso. Il Toro, “inspiegabilmente“, decide di cederlo. Il ragazzo finisce all'Avellino, dove però trova nel suo ruolo Fernando De Napoli, un giovane mediano che da lì a poco diventerà compagno di squadra di Diego Armando Maradona nel Napoli. Nando De Napoli è il titolare e Bertoneri il campo lo vede col contagocce. Poco spazio, tante panchine e l''autostima che se ne va. “Da allora non si è più ripreso”, spiega Vatta. “Quella cessione deve aver avuto l’effetto di uno shock per Dante”.

Dante Bertoneri in un Torino-Catanzaro della stagione 1981-82

Neanche il successivo passaggio al Parma di Nevio Scala è riuscito a risollevarlo. Credo che il suo desiderio fosse quello di giocare al Torino: per sempre. Forse quel trasferimento, per un ragazzo introverso come Dante, è stato purtroppo determinante. In negativo”. La sua carriera si è infatti improvvisamente fermata. Dopo l'esperienza a Parma si sono perse le tracce di Bertoneri. “Ma la colpa non è solo del ragazzo. Tutti noi addetti ai lavori – ammette Vatta – dovevamo e potevamo fare di più per restituirlo al grande calcio”.

Qualcosa di più forse si poteva fare anche per Gasperino Cinelli, “giocatore di un'incredibile bravura”, assicura Dario Canovi, decano dei procuratori di calcio. “Mezzapunta, con facilità di corsa e capacità di saltare l'uomo fuori dal comune. Neanche maggiorenne vinse il premio come miglior giocatore al Torneo di Viareggio con la maglia della Lazio Primavera”. Poi, il vuoto. C 1 con l'Arezzo, poi C 2, serie D. Fino all'Eccellenza. “Il suo problema – spiega Canovi – era la testa. Limiti caratteriali che hanno finito per arginare l'immenso talento”.

Un'altra stella che non c'è è Matteo Materazzi, il fratello di Marco. Classe '76, attaccante dal fisico prestante, alla Bobo Vieri per intenderci. “Grande tecnica, fiuto del gol, giusta cattiveria agonistica.

Tra i due fratelli – dice Canovi – tutti avrebbero scommesso su Matteo”. Ma avrebbero perso. “Il mio problema – ammette lo stesso Matteo – è che non avevo la testa per arrivare. Marco, oltre ad essere un grande calciatore, ha sempre avuto costanza, determinazione, voglia di arrivare e di migliorarsi. Io sono sempre stato l'opposto”.

Marco Materazzi e gli azzurri di Lippi la notte del trionfo mondiale a Berlino 2006

I primi segnali del suo caratterino Matteo li mostra già all'inizio della sua carriera. “Giocavo negli Esordienti della Lazio – racconta – e una domenica mi trovo a sostituire il centravanti titolare, un certo Di Vaio. Faccio tre gol e vinciamo 4-0 fuori casa. La domenica successiva mi ritrovo in panchina, e cosa faccio? Mollo tutto e me ne vado”. Passa agli Allievi del Messina, torna a Roma nella squadra juniores del Tor di Quinto, dove gioca con Marco. Ma la testa è sempre quella: voglia di allenarsi poca, di divertirsi tanta. “Smetto di giocare a 25 anni nella Sanremese in serie C.

Mi accorgo infatti che la luce si è definitivamente spenta. Ed è una fortuna visto che inizio a lavorare come agente Fifa, un lavoro che mi riempie di soddisfazioni”. Una professione dove Matteo può sfruttare una marcia in più. “Gli errori che ho commesso da giovane mi stanno tornando utili ora. Diciamo che riesco a capire abbastanza velocemente se un ragazzo ha la testa giusta per sfondare”.

C'è poi il caso dei fratelli Conti, i figli di Bruno 'Marazico'. Tutti e due ereditano i geni calcistici del papà, ma solo uno sfonda davvero nel grande calcio: Daniele, bandiera del Cagliari e tra i centrocampisti più forti del campionato italiano. “Andrea Conti – racconta Guglielmo Acri, direttore sportivo che l'ha avuto nella sua scuderia – tecnicamente era considerato più bravo del fratello. Grande estro, uomo dell'ultimo passaggio e dei gol impossibili. Un piacere vederlo giocare".

Purtroppo non è stato fortunato. Ancora giovanissimo fece due apparizioini in serie A nella Roma dei grandi, per poi andare in prestito i serie C a Carpi. In quella stessa stagione fu richiamato dalla Roma per partecipare al Torneo di Viareggio.

“Quel torneo fu la sua maledizione”, spiega Acri. “Si infortunò ad un caviglia. Un brutto infortunio che, di fatto, gli ha impedito di fare una grande carriera. Degna del suo talento”. Invece è stata tanta serie C: Nocerina, Fano, Castel di Sangro, Lanciano. Nell'estate del 2007 il trasferimento al Bellinzona, squadra della Challenge Leaugue svizzera.

Un altro fratello che ha preso la strada del successo 'contromano' è Maurizio Amenta, fratello del più famoso Mauro. Giocava nelle giovanili della Roma, come il fratello, solo che Mauro ce l'ha fatta e lui no. “Ha avuto una carriera di basso livello, non consone alle sue qualità”, racconta Giorgio Perinetti, decano dei direttori sportivi. “Non reggeva la pressione della grande città, appena poteva tornava a casa, ad Orbetello. Una volta, prima di una partita degli Allievi della Roma, disse al suo allenatore: Mister, se faccio 2 gol al primo tempo, poi mi manda subito a casa? Però era un grande talento. Davvero un peccato che non sia esploso”.

A volte però, come nel caso di Andrea Conti, anche se hai tecnica, testa, carattere, non ce la fai uguale. Magari perché la sfortuna si accanisce. Basta un infortunio e stop: addio ai sogni di gloria. E' il caso di Francesco Sotera 46 anni, detto 'Ciccio'. “Sotera – racconta Acri – arriva nel '79 agli Allievi della Roma di Dino Viola dall'Interclub di Catania dove in un campionato realizza la bellezza di 50 gol”. Praticamente un fenomeno. Dopo una stagione negli Allievi, viene aggregato nella Primevera di Righetti, Faccini, Di Carlo. Sfiora a 17 anni l'esordio in serie A, prima di essere trasferito in prestito al Civitavecchia. “Lì subisce un brutto infortunio: lacerazione del quadricipite della gamba destra. Una lesione grande quanto una mano”. Siamo negli anni '80, e le cure mediche non sono certo quelle di oggi. L'infortunio è grave e i postumi della lesione accompagneranno il ragazzo anche negli anni a seguire. Ciccio Sotera dalla Roma dei sogni di mister Liedholm, si ritrova a calcare i campi della provincia siciliana. Torna a casa, ma con il suo sogno riposto nel cassetto e tanti rimpianti.

Un altro giovane talento perseguitato dalla sfortuna è stato Ciro Caruso. Centrale di difesa, classe '73, giocava nel Napoli Primavera, compagno di squadra e di reparto di Fabio Cannavaro. “Stacco di testa, velocità, piedi eccezionali. Ma la sfortuna – spiega Perinetti – lo bloccò poco prima dell'esordio in serie A. Un infortunio ai legamenti crociati del ginocchio gli fece perdere l'occasione di esordire nella prima squadra.

L'allora allenatore dei partenopei, Claudio Ranieri, aveva infatti puntato su di lui per sostituire l'indisponibile Blanc al centro della difesa”. Ma l'appuntamento con la gloria saltò. “In seguito fu vittima di un altro brutto infortunio, sempre alle ginocchia, che praticamente lo costrinse a chiudere la carriera“.

Anche Mino Favini, responsabile del settore giovanile dell'Atalanta, è uno che di talenti se ne intende. E' considerato il guru del calcio giovanile italiano. Eppure, anche lui, un paio di scommesse le avrebbe perse. “Mi viene in mente un nome su tutti: Gianni Ungaro. L'ho avuto a Como 30 anni fa. Mezzala dalle grandi doti tecniche e con spunti da fuoriclasse autentico”. Ha esordito tra i professionisti a 17 anni.

“Il giorno del suo esordio l'allenatore della prima squadra, Pippo Marchioro, mise un fiocco azzurro in sede e disse: è nato un giocatore con la G maiuscola“. Invece è finito a giocare nei dilettanti. “La ragione è che non aveva capito che il calcio è fatica, intensità, lavoro. Mi ricordo, ad esempio, che trovava sempre scuse per saltare l’allenamento. Eppure ha giocato insieme a ragazzi che sono diventati tutti ottimi calciatori: Braglia, Galia, Fusi, Invernizzi, Borgonovo. E lui, considerato il più bravo, non è riuscito a sfondare davvero. Ai miei ragazzi di oggi, lo porto spesso come esempio di talento sprecato”.

Oltre a Ungaro, un altro cruccio di Favini è Vladimiro Carraro. Questa volta siamo a Bergamo, Primavera dell'Atalanta. “Carraro era una mezzala dal grande dribbling, con una tecnica di base superiore alla media. Aveva tutti i mezzi per lasciare un segno indelebile nelle pagine di storia del nostro calcio”. Ma non è andata così. “Era considerato bravo almeno quanto i suoi compagni di squadra: Morfeo, Tacchinardi, Locatelli. Tutti ragazzi che hanno sfondato”. E allora? Perché non ce l'ha fatta? “E' un mistero. Forse aveva qualche lacuna caratteriale. Probabilmente non ha retto alle pressioni e alle aspettative che si erano create intorno al suo nome“. D'altronde il momento più delicato di un calciatore è proprio il salto di categoria, dalle giovanili al professionismo. “La categoria la fa la testa, non i piedi“, spiega Favini. “Il ragazzo deve essere pronto ad allargare i suoi orizzonti, a capire che non è sufficiente essere bravi con la palla al piede, bisogna essere in grado di mettere il proprio talento a disposizione del gruppo. Il numero tecnico fine a se stesso non conta“. Dopo la Primavera nerazzurra, Carraro ha militato in serie C, per poi perdersi definitivamente.

C’è poi la storia di Alberto Bernardi, classe 1977, il nuovo Boniek. “Bernardi – racconta Carlo Pallavicino, procuratore e agente Fifa – è un ragazzo dal talento immenso. Attaccante dalla grande forza fisica, con un’ottima progressione. Una seconda punta coi fiocchi”. Ha giocato nella Primavera del Torino, con cui ha vinto un Viareggio, e ha fatto parte, insieme a Francesco Totti, della nazionale under 18 che ha conquistato un secondo posto agli Europei di categoria del 1995. “A fronte dell'enorme potenziale, la sua carriera non ha però rispettato le attese.

Tanta serie C, troppo poco per un talento come lui. Forse è venuto meno sotto l’aspetto della convinzione e del carattere. Alle prime difficoltà si è un po' spento, malgrado fosse considerato la stellina del settore giovanile. A quella età la gestione della competitività e dell'emotività è fondamentale. A volte invece i ragazzi, specie quelli più dotati tecnicamente, tendono a strafare e, alle prime difficoltà, iniziano a vedere nemici dappertutto“.

Dieci storie per raccontare quello che poteva essere e non è stato. Dieci storie per tracciare il confine sottile tra la gloria e il fiasco. Basta un incidente di gioco, l'allenatore che in quel momento non ti vede, un trasferimento affrettato, un problema personale. Insomma, basta un niente e perdi il treno. In attesa del prossimo: quello che non c'è.

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