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Dal garage di via Licinio Calvo al bar Olivetti, i nuovi gialli del caso Moro

10 dicembre 2015 | 15.44
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Un frame della ricostruzione in 3D di quanto avvenne in via Fani
Un frame della ricostruzione in 3D di quanto avvenne in via Fani

di Francesco Saita

Dal garage 'compiacente' di via Licinio Calvo, alle notizie che 'anticiparono' il sequestro Moro, alla ‘scomparsa’ del killer esperto presente in via Fani, ai 'limiti' del memoriale Morucci, per finire con il bar Olivetti, "crocevia di criminali". Dopo un anno di lavoro, la Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro, presieduta da Beppe Fioroni, tira le prime somme - circa 200 pagine, presentate oggi - che in questa prima fase "ha seguito l’ordine cronologico dei fatti, concentrandosi prevalentemente sugli avvenimenti della prima metà dei 55 giorni del sequestro di Aldo Moro, dal 16 marzo sino al 18 aprile 1978".

Tantissime le strade battute - tra audizioni, nuove perizie e acquisizione di documenti - dall’organismo parlamentare che cerca di fare luce sull’omicidio politico più importante della storia italiana del dopoguerra, nonostante i 37 anni trascorsi da quella drammatica vicenda, partendo dalla convinzione che le parole di Valerio Morucci, che portarono al cosiddetto memoriale con la verità delle Br sul caso Moro, "segnarono, e forse segnano, i confini della 'verità dicibile' su 55 giorni, a cominciare proprio dalla ricostruzione delle prime cruciali fasi dell’azione brigatista".

E su quella ricostruzione la Commissione si sofferma nella relazione, ponendo nuovi interrogativi su ciò che avvenne la mattina del 16 marzo 1978 e nei momenti che precedettero e seguirono l'attacco brigatista "al cuore dello Stato".

Secondo la Commissione Moro le indagini su Via Licinio Calvo “assumono un significato fondamentale per la ricostruzione di tutta la fase del sequestro di Aldo Moro, immediatamente successiva all’agguato di via Fani". “Si tratta di indagini per il momento in parte riservate e sulle quali, ancora una volta, non possiamo mettere un punto, ma sulle quali abbiamo buoni motivi per insistere. Il nostro convincimento è che in quella via ci fosse un garage di riferimento dove furono ricoverate le auto rinvenute solo nel corso delle ore successive", spiega il presidente Fioroni.

"L’analisi critica dei dati obiettivi porta ragionevolmente a ritenere che prima dell’abbandono dei veicoli (si fa riferimento alle vetture delle Br coinvolte nell'agguato di via Fani, ndr) in via Licinio Calvo vi fu una complessa operazione, meticolosamente pianificata, affidata a più complici, addetti a compiti logistici, mai identificati, volta ad occultare le armi lunghe e a disfarsi, in sicurezza, delle auto; un’operazione, al tempo stesso, finalizzata anche a nascondere l’ostaggio in un sito sicuro e adatto a fronteggiare situazioni impreviste".

"Ricordiamo che il 16 gennaio del 1979 su Op - scrivono i parlamentari della Commissione - , Mino Pecorelli, fece espresso riferimento al 'garage compiacente che ha ospitato le macchine servite all’operazione' e che un rapporto stilato dalla GdF sull’attività svolta nei giorni del sequestro riporta che una 'fonte riservata' aveva avvertito il comandante della Guardia di Finanza, Giudice, che 'le 128 dei brigatisti sarebbero state inizialmente parcheggiate in un box o garage nelle immediate vicinanze di via Licinio Calvo'".

"Malgrado il tempo trascorso, la questione della base non scoperta deve ritenersi attuale", scrivono i parlamentari della Commissione, ricordando come le due Fiat 128, bianca e blu, vennero entrambe abbandonate in via Licinio Calvo, ma, contrariamente da quanto afferma il memoriale Moretti, in tempi diversi e successivi al rinvenimento della 132. Fissando alle 9.23 del 16 marzo l’orario del ritrovamento della Fiat 132 a bordo della quale venne caricato Moro in via Fani, parcheggiata sul lato destro di via Licinio Calvo, all’altezza del civico 1. Poi viene segnalato alle 9,27 l’allontanamento a piedi dal quel luogo di una donna e un uomo armati. I poliziotti apprendono 'a caldo' la circostanza dell’allontanamento a piedi dalla Fiat 132 di un uomo e una donna.

"Valerio Morucci – ricorda la relazione - nel memoriale scrive che a bordo della Fiat 132, ove era stato caricato Aldo Moro, presero posto solo brigatisti uomini, e che gli altri fuggirono con le due Fiat 128. Su quella blu ha indicato la presenza di Barbara Balzerani, fin dalla fase della partenza del convoglio dal luogo della strage: se alla 132 abbandonata in via Licinio Calvo è stata collegata una donna, o si tratta di un’altra terrorista, non operativa a via Fani – e allora la 132 si è fermata in qualche luogo per farla salire a bordo – oppure, in un dato momento, Balzerani ha cambiato la propria originaria collocazione". "Di certo - è la deduzione dei parlamentari - è falsa la ricostruzione proposta dal memoriale Morucci, che esclude che Balzerani, collocata nella 128 blu, sia giunta a piazza Madonna del Cenacolo, luogo indicato del primo trasbordo di Moro. E diventa sempre più pressante un interrogativo: quando lo statista venne tratto fuori dalla 132, visto che in un momento anteriore e prossimo alle 9,23 quell’auto venne abbandonata?", si domandano dalla Commissione.

"La catena degli eventi che consentono ai brigatisti di scomparire con l’ostaggio certamente non fu casuale. E’ assolutamente fuorviante parlare di 'fortuna' in riferimento alle complesse modalità dell’azione. La via Licinio Calvo divenne un terminale di primaria importanza dell’intera operazione, ed oggi si pone come punto prospettico utile all’esatta ricostruzione delle fasi successive all’agguato", ha concluso sul capitolo del 'covo mai trovato' Fioroni.

Se, come e perché la notizia del rapimento di Moro fosse filtrata giorni prima della strage di via Fani è un altro dei temi che ha visto attiva la Commissione, che ha cercato nuovi punti fermi. Su questo versante "è stato acquisito un documento di notevole interesse, versato all’Archivio centrale dello Stato a seguito della cosiddetta 'direttiva Renzi'. Il documento – un ‘messaggio cifrato non diramato ad enti collegati’, che reca l’intestazione "Ufficio R, reparto D, 1626 segreto", è datato 18 febbraio 1978 e proviene da Beirut, 'fonte 2000'.

"Vicedirettore informato ALT – si legge nel testo -. Mio abituale interlocutore rappresentante ‘FPLP’ Habbash incontrato stamattina habet vivamente consigliatomi non allontanarmi Beirut, in considerazione eventualità dovermi urgentemente contattare per informazioni riguardanti operazione terroristica di notevole portata programmata asseritamente da terroristi europei che potrebbe coinvolgere nostro Paese se dovesse essere definito progetto congiunto discusso giorni scorsi in Europa da rappresentanti organizzazioni estremiste ALT. At mie reiterate insistenze per avere maggiori dettagli interlocutore habet assicuratomi che ‘FPLP’ opererà in attuazione confermati impegni miranti escludere nostro Paese da piani terroristici genere, soggiungendo che mi fornirà soltanto se necessario elementi per eventuale adozione adeguate misure da parte nostra autorità. ALT. Fine. Da non diramare ai servizi collegati OLP Roma".

Per la Commissione "è evidente che, se fosse effettivamente dimostrata una relazione con il sequestro di Aldo Moro, il documento in questione aprirebbe prospettive di interpretazione del tutto nuove e, allo stato, imprevedibili".

Relativamente a quanto avvenuto a via Fani, con l’eccidio della scorta e poi il sequestro di Moro, "occorre premettere che la ricostruzione dei fatti non può ancora ritenersi completa", dicono dalla Commissione, spiegando come proseguono "le indagini con approfondimenti dedicati ad accertare l’esatta composizione del gruppo di fuoco e del nucleo che assicurò copertura e supporto all’esecuzione dell’agguato. A tal fine, abbiamo disposto, tra l’altro, accertamenti tecnici di natura irripetibile diretti ad individuare la presenza di eventuali tracce biologiche su reperti rinvenuti in via Fani (39 mozziconi di sigaretta rinvenuti all’interno della Fiat 128 con targa diplomatica, un berretto da aviatore e baffi posticci utilizzati da componenti del gruppo di fuoco) e riferibili ai terroristi che presero parte all’azione".

Secondo la Commissione "il dato più innovativo che emerge dalle conclusioni cui giunge la Polizia scientifica è che la prima fase dell’agguato si concretizza con l’esplosione di colpi dal lato sinistro da parte dei brigatisti che si trovano nei pressi del bar Olivetti". Con una ricostruzione che "diverge anche dalla sentenza del primo processo Moro", dove si legge che "l’autista e il passeggero della Fiat 128 con targa diplomatica scesero dall’auto e si avvicinarono ad entrambi i lati dell’autovettura dello statista. Costoro infransero i vetri degli sportelli anteriori e scaricarono le loro pistole lunghe nell’abitacolo, uccidendo Ricci Domenico e Leonardi Oreste, mentre quattro complici, che indossavano divise di compagnia aerea, sbucarono dalle aiuole antistanti il bar Olivetti e cominciarono a far fuoco".

Altro punto acquisito dalla polizia riguarda "la messa in crisi dell’idea che a via Fani abbia operato un 'superkiller'. È vero infatti che vi fu una bocca di fuoco che sparò da sola quarantanove colpi, ma è stato dimostrato che ciò avvenne con una precisione non particolarmente elevata (da quell’arma soltanto sei colpi andarono a bersaglio, colpendo l’agente Iozzino). Ciò conferma che esiste, a tutt’oggi, un eccessivo divario tra la notevole efficacia dell’attacco e le dichiarazioni 'riduttive' fatte dagli stessi protagonisti dell’agguato nel corso degli anni".

"Infatti i brigatisti finora conosciuti che hanno sparato a via Fani, in momenti diversi, hanno tutti dichiarato che i loro mitra si incepparono durante l’azione. Gallinari e Bonisoli riuscirono a utilizzare le pistole di scorta; Morucci sostituì il caricatore del mitra e avendo 'impiegato del tempo per disinceppare l’arma', esplose una seconda raffica quando la macchina ‘era già ferma’; Fiore, pur avendo cambiato il caricatore, non sparò un solo colpo perché l’arma si bloccò di nuovo. Non a caso Moretti ha parlato di ‘capacità e precisione militare approssimativa’ del commando, con una preparazione che ‘avrebbe fatto ridere un caporale di qualsiasi esercito’ e di essere convinto che neppure Bonisoli sappia ‘come ha fatto a sparare con tanta precisione’ verso Iozzino".

I rilievi eseguiti dalla Polizia scientifica non confermano la circostanza – riferita invece dal memoriale Morucci – dei ripetuti tamponamenti con cui l’appuntato Ricci, alla guida della Fiat 130, avrebbe tentato di disimpegnarsi dall’ostacolo costituito dalla Fiat 128 con targa diplomatica: sembrerebbe, invece, che gli sbalzi fossero conseguenza della perdita del controllo di Ricci, colpito a morte, in linea con la testimonianza resa dall’edicolante Pistolesi, che vide la Fiat 130 procedere a balzi dopo i primi colpi, prima di fermarsi".

“Sulla scorta degli elementi acquisiti, si può affermare che l’attacco fu portato con determinazione, capacità militare e ferocia. Considerata la rapidità dell’azione, i terroristi impegnati nelle attività di copertura e di blocco non ebbero la necessità di intervenire in aggiunta al gruppo di fuoco. L’unica resistenza incontrata venne stroncata da una terribile reazione, come dimostra il fatto che l’agente Iozzino fu falciato da ben 17 colpi. Con agghiacciante freddezza, i terroristi si avvicinarono alle autovetture ed esplosero colpi per finire i militari della scorta".

Di notevole interesse sono le novità relative al bar Olivetti, situato in prossimità del luogo dell’agguato, a Via Fani 109. "Infatti, abbiamo scoperto – sottolineano dalla Commissione - sulla base di diverse testimonianze, che il bar non era affatto chiuso in quelle settimane, come erroneamente hanno riferito tutte le indagini nel corso di questi 37 anni e di conseguenza la sterminata pubblicistica esistente".

Secondo quanto ricostruito dalla Commissione "il titolare Tullio Olivetti era un personaggio molto noto agli ambienti investigativi per essere stato coinvolto in una complessa vicenda relativa ad un traffico internazionale di armi, ma più volte ‘sfilato’ da tutte le indagini, contrariamente ai suoi presunti complici, tanto da far ipotizzare che la sua posizione sembrerebbe essere stata ‘preservata’ dagli inquirenti e che egli possa avere agito per conto di apparati istituzionali ovvero avere prestato collaborazione".

Durante l’indagine su Olivetti si era scoperto che l’uomo, "vantava alte aderenze politiche ed era in contatto con ambienti della criminalità organizzata". E aveva contatti con persone legate al mafioso Frank Coppola, noto alla cronaca di quegli anni "come il boss che intervenne per dissuadere alcuni elementi della criminalità organizzata, in precedenza sollecitati da uomini politici ad attivarsi, dal fornire notizie utili a localizzare il luogo dove era tenuto prigioniero Aldo Moro".

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