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Dall'Open banking all'open finance

09 agosto 2021 | 14.50
LETTURA: 3 minuti

Nonostante una crescita meno rapida del previsto dell'open banking, si apre l'epoca in cui ad essere accessibili non saranno solo i dati bancari, ma anche i fondi pensionistici, i conti deposito e altri asset

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La direttiva europea sui pagamenti bancari PSD2 (Payment Service Directive 2), emanata a inizio 2018, ha fatto entrare nella vita di banche e clienti questa nuova modalità relativa ai servizi a bancari, che si basa sulla condivisione dei dati tra i diversi attori dell’ecosistema. La direttiva ha obbligato le banche europee ad aprire le propri API e i condividere i dati del cliente (dietro consenso del cliente stesso) a società del Fintech e aziende che si occupano di prodotti e servizi finanziari, facendo strada a una maggiore concorrenza nelle aree che sono tradizionalmente dominio delle banche, generando un nuovo panorama competitivo. Le banche entrano in un terreno di competizione mai visto fino a poco tempo fa, e devono ridefinire il modo in cui si rapportano ai propri clienti e quello in cui competono tra loro e con altri operatori nel proporre servizi.

Un trend sposato dal mondo Fintech, che da sempre ha fatto sua la missione di dare ai consumatori un maggiore e migliore accesso e controllo ai propri dati finanziari. Società come Moneyhub, Yolt e Tink (da poco comprata da VISA per 1,8 miliardi di dollari) permettono ai consumatori di condividere i propri dati con terze parti facendo pagare una fee ai propri clienti. Il loro modello di funzionamento è piuttosto standard: piattaforme che consentono agli utenti di gestire i propri conti da un’unica app, effettuare i pagamenti, aggregare i dati grezzi in categorie per semplificarne la lettura e quindi migliorare il controllo della gestione delle proprie finanze.

Dall’altro lato ci sono le banche che lamentano di dover competere su un terreno impari con operatori che hanno meno vincoli di regolamentazione e controllo, e che spesso faticano a uscire da formule collaudate ma poco dinamiche per adeguarsi a una realtà molto più rapida e fluida. Anche i clienti, d’altra parte, hanno iniziato con una certa cautela ad avvicinarsi all’open banking. Nel Regno Unito, dove si prevedevano 33 milioni di utilizzatori attivi entro il 2022 e dove grandi gruppi come Loyds e Barclays avevano lanciato le loro app dedicate da cui poter gestire in contemporanea i conti di più istituti, a gennaio 2021 si era fermi a 3 milioni di utilizzatori attivi delle funzioni open banking.

Questo però non frena gli entusiasti, che ipotizzano un panorama di open finance, in cui ad essere accessibili non sono solo i dati bancari, ma che estende la condivisione anche a fondi pensionistici, conti deposito e altri asset. Per i consumatori il grande ostacolo sembra essere la protezione dei dati personali. Secondo uno studio di Deloitte del 2019, negli Stati Uniti se si parla di open banking il 69% dei consumatori teme il furto di identità e il 60% non è tranquillo riguardo l’uso che viene fatto dei dati disponibili. Secondo gli addetti del settore, come Dmitry Dolgorukov, cofondatore della fintech HES che si occupa di amministrazione e gestione di crediti e finanziamenti, la chiave sta nell’educazione del consumatore ancora prima che nell’apertura dei dati. Insegnare all’utente come avere accesso ai suoi dati e con chi condividerli conferirebbe il potere al singolo e permetterebbe una gestione più consapevole. Altri, come il CEO e cofondatore di Nordigen Rolands Mester ammettono che la rincorsa tecnologica è nettamente più rapida rispetto alla regolamentazione, e che è necessario rallentare e costruire un frame normativo più solido per evitare una caduta nella deregulation sotto la maschera dell’accessibilità dei dati.

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