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E se ai Millennials dell’annata non importasse nulla?

04 giugno 2022 | 12.37
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Andare alla conquista di una fascia diversa di consumatori vuol dire anche capire le loro priorità. E il vintage sull’etichetta non pare essere una di queste

E se ai Millennials dell’annata non importasse nulla?

Nel Sancta Sanctorum del mondo del vino l’annata occupa sempre un posto speciale. È un po’ come la carta d’identità di una vendemmia e dell’interazione di questa con il territorio, con il clima e con la mano dell’uomo. Conta molto anche nel listino prezzi delle aste e in più generale nel settore dei vini di pregio, contesi a suon di migliaia di euro a bottiglia. Ma quanto tutto questo è davvero appeal per i giovani consumatori, per i cosiddetti Millennials? Parrebbe pochissimo dai dati raccolti da Wine Intelligence sul segmento giovanile statunitense, dai quali si evince che ci si muove verso vini a basso contenuto alcolico, con una tasso di crescita annuale previsto per il 2021-2025 del 27% per il vino e del 30% per lo spumante. Inoltre coloro che hanno tra i 25 e i 40 anni guardano al vino sotto diversi aspetti: dal packaging alla sostenibilità e alle produzioni biologiche, con particolare predilezione per vitigni autoctoni o a denominazione geografica, per un bere di qualità attestato anche dal prezzo medio d’acquisto, mediamente sui 15 euro a bottiglia e 5 euro a calice. Non pochissimo, certo, ma è indubbio che i giovani hanno meno capacità di spesa degli adulti e spesso i vintage di un certo livello sono proposti a cifre inavvicinabili.

Vista dalla prospettiva del produttore, ci sono inoltre una serie di “criticità” nella realizzazione di un vino di annata che potrebbero essere superate tramite un “multivintage”: pensiamo alla siccità - e dunque a rese scarse - all’aumento dei costi energetici e al rincaro delle materie prime - e quindi a un aumento del costo finale del prodotto.

Prima di procedere, chiariamo il significato dell’espressione “vino multivintage” che, in questo caso, è riferita ai vini fermi (negli spumanti è infatti una pratica consueta). Trattasi di etichette non millesimate che nascono da un mix di vini provenienti da vendemmie diverse. Letta così, non pare nulla di eccezionale, se non fosse che in Italia è una pratica proibita nelle Denominazioni di Origine (sigla Do che include sia Doc che Docg) dal Testo Unico della vite e del vino - Legge 238 del 12/12/2016, art. 31 comma 12: “Per i vini a DO, ad esclusione dei vini liquorosi, dei vini spumanti non etichettati come millesimati e dei vini frizzanti, deve essere indicata nell'etichetta l'annata di produzione delle uve”. Va da sé invece che per i vini IGT e da tavola questa indicazione può essere omessa.

Altra storia all’estero, in particolare nel Nuovo Mondo enologico, dove una visione meno tradizionalista della produzione, dà questa possibilità con alcuni vantaggi non da poco. Succede in Napa Valley e Sonoma ad esempio, dove diverse realtà -anche blasonate- prevedono seconde linee realizzate con multi-annate che consentono bottiglie meno care, ma sempre di ottima qualità. In California, ad esempio, questa pratica risponde all’annoso problema degli incendi che da decenni sta minacciando la sopravvivenza stessa della vitivinicoltura. Parliamo di uno stato che produce l'81% della produzione vinicola totale degli Stati Uniti, per un valore di 40 miliardi di dollari. Secondo il Wine Institute americano molte delle principali varietà di vino della regione sono in declino, tra cui lo Chardonnay e il Cabernet Sauvignon, che hanno registrato ciascuno un tasso di crescita negativo di circa il 7% nel 2021, seguiti dal Pinot Nero. Alla domanda perché piacciano meno, è arrivata la risposta dei millennials: sono vini (e uve) da anziani! Sempre lo storico istituto di ricerca americano sottolinea come i baby boomer, che sono in gran parte responsabili del successo del settore negli ultimi due decenni, consumeranno inevitabilmente meno vino. Ma i Millennials, che stanno entrando negli anni di maggiore spesa (dai 35 ai 55 anni), scelgono di dividere la loro propensione al beverage tra vino, birra e liquori.

Ci sono anche altre sfide nel mondo del vino come la siccità, i problemi della catena di approvvigionamento, la carenza di manodopera, mentre l’inevitabile aumento dei prezzi già in corso potrebbe essere un ulteriore fattore di allontanamento dei consumatori più giovani. Sacrificare l’annata per vincere sul prezzo può essere una soluzione?

Ovviamente ciò che è valido in California non è detto che lo sia in Italia, dove la cultura del vino ha radici più profonde e dove si fa più fatica a prendere in considerazione dei cambiamenti. Aperto a questo genere di riflessione si mostra Antonio Michele Fino, professore Associato di Diritto Romano e Diritti dell’Antichità presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e lui stesso produttore vitivinicolo: “Tutti i disciplinari italiani - spiega il docente - fanno capo al Testo Unico della vite e del vino e quindi vi è l’obbligo di citare l’annata nei vini fermi a Denominazione di Origine, anche dove è concesso il taglio migliorativo, con annate precedenti, che non deve però superare la percentuale del 15 per cento. Cosa diversa è per gli spumanti e i frizzanti. Dunque, diversamente sarebbe necessario un cambio normativo e non solo disciplinare. Un esempio chiaro della nostra reticenza è offerto dal mondo degli spumanti italiani, Franciacorta e Trento Doc in testa, dove si predilige comunque il vino di annata e dove il millesimo in etichetta è sinonimo di qualità. In Champagne non hanno mai avuto questa “rigidità” e i sans année sono ambiti come i vintage. Sono i consumatori ad avere percezioni opposte della qualità. Da noi se vuoi fare un vino non di denominazione ma con l’annata apposta sull’etichetta devi fartelo certificare da un ente, proprio perché l’annata è considerata un marchio di qualità. Indubbiamente il rapporto tra consumatore e annata può essere rivisto, a patto che la cifra del territorio sia sempre evidente in un vino che, sì, potrebbe essere fatto anche con più annate e non cedere in prestigio”.

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