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Vatileaks 2, si torna in aula: cosa rischiano gli imputati

05 aprile 2016 | 14.37
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Piazza San Pietro e la Basilica (Foto Fotogramma) - FOTOGRAMMA
Piazza San Pietro e la Basilica (Foto Fotogramma) - FOTOGRAMMA

Vatileaks 2, domani si torna in aula davanti al collegio del Tribunale vaticano - presieduto da Giuseppe della Torre - per l'udienza relativa al trafugamento di documenti vaticani riservati. Imputati sono monsignor Lucio Vallejo Balda, ex segretario della Prefettura degli Affari economici, detenuto in una cella della Gendarmeria vaticana dopo aver ottenuto i domiciliari, Francesca Immacolata Chaouqui, anche lei ex membro della Cosea, che non ha ancora terminato il settimo mese di gravidanza; imputati nella vicenda anche l'ex collaboratore della Cosea, Nicola Maio, e i giornalisti Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi.

Il rinvio a giudizio è stato disposto per il reato previsto dall’articolo 116 bis c.p. vaticano, vale a dire per la divulgazione di notizie e documenti riservati. Nuzzi e Fittipaldi, autori rispettivamente dei bestseller 'Via Crucis' e 'Avarizia', sono stati coinvolti nel procedimento penale per il concorso nel presunto reato. A Balda, alla Chaouqui e a Maio viene contestato anche il reato di associazione per delinquere.

Che cosa rischiano, dunque, gli imputati? Il codice penale vaticano prevede condanne dai 4 agli 8 anni di carcere per il reato contestato. Reato al quale - in base all'accusa - avrebbero concorso anche i due giornalisti. Per la Chauoqui, la situazione è aggravata dall'ipotesi dell'associazione a delinquere, che può far lievitare ulteriormente la pena da 3 a 6 anni (il reato associativo è contestato anche a Balda e a Maio)

In caso di condanna - ma non è nemmeno da escludere che la vicenda possa concludersi con un atto di grazia da parte del Papa in coincidenza dell'Anno Santo dedicato alla misericordia - ci sarà da fare i conti con il fatto che tra Italia e Santa Sede manca un trattato di estradizione. Il che significa che per un cittadino italiano condannato in via definitiva, o sottoposto a una misura cautelare, l'Italia non potrebbe concedere l'estradizione se il Vaticano la richiedesse per poter eseguire la condanna nel proprio territorio. Si dovrebbero studiare misure ad hoc. Non ci sono dunque certezze.

Il Vaticano avrebbe un'altra strada: chiedere che un'eventuale condanna venga eseguita in Italia (articolo 22 del Trattato del 1929). Ci sarebbero, comunque, altri ostacoli. Le autorità italiane, infatti, dovrebbero valutare la sentenza alla luce di quel che prevede il nostro ordinamento e sulla base del principio della cosiddetta 'doppia incriminazione': il reato per cui viene comminata la condanna deve essere presente anche nel nostro codice o assimilabile a misure in esso contemplate. Questione non di poco conto, visto che è in gioco la tutela del diritto di cronaca.

Tra gli imputati c'è appunto Francesca Immacolata Chaoqui che non ha ancora concluso il settimo mese di gravidanza e per la quale i giudici del Tribunale vaticano, il mese scorso, avevano disposto riposo assoluto per venti giorni. "Ora Francesca sta meglio - spiega all'Adnkronos il suo legale Laura Sgrò -. Ha avuto modo di riposarsi e di scaricare un po' di tensione. Fisicamente, quindi, sta meglio ma parliamo sempre di una donna che non ha ancora concluso il settimo mese di gravidanza. A meno di complicanze, domani dovrebbe essere in aula".

Da parte sua, Francesca Chaoqui aveva affidato ai social le sue certezze e le sue preoccupazioni: "Sarò condannata. Senza prove. Senza motivo. Pagherò il fastidio di aver obbedito al Papa e non essermi schierata con chi diceva 'il Papa passa, la curia resta'. Andrò in carcere. Ho rinunciato a ogni mezzo di appello, e non ho chiesto nessuna grazia. Quel tribunale condannandomi dovrà assumersi la responsabilità di eseguire la pena. E so che lo farà. Anche lì non c'è scelta. A meno di perdere ogni credibilità, già compromessa".

In caso di condanna, dovrebbe essere lo Stato vaticano a chiedere all'Italia di farsi carico della situazione. Il diritto canonico però contempla anche il 'principio di equità', istituto che ha funzione correttiva della legge quando la sua applicazione può produrre ingiustizie o contrastare con lo spirito di carità e le esigenze spirituali proprie dell'ordinamento canonico. Il giudice ecclesiastico, quindi, essendo tenuto ad applicare il diritto divino può disapplicare il 'diritto positivo' se si discosta dalla giustizia.

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