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Trattativa Stato-mafia, chiesti 12 anni per Dell'Utri

26 gennaio 2018 | 13.58
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La Procura di Palermo ha chiesto 12 anni di carcere per l'ex senatore Marcello Dell'Utri accusato di minaccia a corpo politico dello Stato nell'ambito del processo sulla trattativa tra Stato e mafia. Più alta la pena richiesta per il generale Mario Mori per il quale i pm di Palermo chiedono 15 anni di carcere. Per gli altri due ex ufficiali del Ros, il generale Antonio Subranni e Giuseppe De Dnno, sono stati chiesti 12 anni di carcere.

Per il boss mafioso Leoluca Bagarella i pm Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, hanno chiesto la condanna a 16 anni di reclusione, per il boss Antonino Cinà, entrambi accusati sempre di violenza e minaccia a corpo politico dello Stato, sono stati chiesti 12 anni di reclusione. Per il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, la Procura ha chiesto il non doversi procedere per estinzione del reato per intervenuta prescrizione.

La procura di Palermo ha chiesto la pena a 6 anni di carcere per l'ex Presidente del Senato Nicola Mancino che, a differenza degli altri imputati al processo sulla trattativa, non è accusato di minaccia a corpo politico dello Stato ma di falsa testimonianza. "Per avere - come dicono i pm - deponendo come testimone, innanzi al Tribunale di Palermo nel processo nei confronti di Mario Mori e di Mauro Obinu, anche al fine di assicurare ad altri esponenti delle istituzioni la impunità rispetto ai fatti, affermato il falso e comunque taciuto in tutto o in parte ciò che sapeva intorno ai fatti sui quali veniva interrogato". "In particolare, affermando falsamente di non essere mai venuto a conoscenza: dei contatti intrapresi, in epoca immediatamente successiva alla strage di Capaci, da esponenti delle istituzioni, tra i quali gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno, con Vito Ciancimino e per il tramite di questi con gli esponenti di vertice dell'associazione mafiosa di cosa nostra".

La condanna a 5 anni di carcere è stata chiesta dai pm di Palermo per Massimo Ciancimino, teste chiave del processo sulla trattativa tra Stato e mafia, per il reato di calunnia e il non doversi procedere per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, perché prescritto. Il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo è accusato di avere "consapevolmente e fattivamente contribuito al sostegno e al rafforzamento dell'associazione mafiosa, denominata Cosa nostra, svolgendo il ruolo di latore di messaggi scritti con comunicazioni orali fra il padre Vito e Bernardo Provenzano" ma anche di calunnia nei confronti dell'ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, incolpandolo "sapendolo innocente - dice il capo di imputazione - di avere nella sua qualità di funzionario della Polizia intrattenuto costanti rapporti illeciti con esponenti di cosa nostra".

La dichiarazione del doversi procedere "per la morte del reo" è stata chiesta alla fine della requisitoria dai pm di Palermo per il capomafia Totò Riina morto lo scorso 17 novembre.

"Siamo arrivati al termine della requisitoria, la presenza mia e del collega Francesco Del Bene cessa con l'udienza di oggi - ha detto il pm Nino Di Matteo -. Personalmente è stato per me un impegno, tra le Procure di Caltanissetta e di Palermo durato 25 anni. Ho seguito questo processo fin dall'inizio, dalle indagini preliminari. Un processo che è destinato a portarsi dietro una scia infinita di veleni e di polemiche".

"Man mano che siamo andati avanti ho avuto contezza del costo che avrei pagato per questo processo - dice ancora - e credo di non essermi sbagliato. Hanno più volte affermato che l'azione di noi pm è stata caratterizzata persino da finalità eversive, e nessuno ha reagito. Nessuno ci ha difeso di fronte ad accuse così gravi, ma noi lo abbiamo messo in conto. Così avviene in questi casi, in cui l'accertamento giudiziario non si limita agli aspetti criminali ma si rivolge a profili più alti e causali più complesse".

"Siamo veramente onorati di avere avuto l'occasione di confrontarci con la serenità e l'autorevolezza della corte d'assise - prosegue Di Matteo - abbiamo l'ulteriore certezza che ci fa vivere con coraggio che nessuno ci potrà togliere: quella di avere agito per cercare la verità". E parla di momenti "di profondo isolamento", ma sempre "con la consapevolezza che stiamo compiendo il nostro dovere".

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