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Coronavirus, Niccolò: "Il virus più pericoloso è il razzismo"

03 marzo 2020 | 10.29
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"Tornerò in Cina. Il virus non ha colori e non guarda in faccia nessuno"

L'arrivo di Niccolò allo Spallanzani (Regione Lazio)
L'arrivo di Niccolò allo Spallanzani (Regione Lazio)

"Tornerò in Cina. Quante stupidaggini. I miei genitori ospitanti, Li Jun e Jiang Xian Xian, bevevano vino veneto. Il virus non ha colori e non guarda in faccia nessuno. C’è un virus più pericoloso, ed è quello del razzismo". Lo afferma Niccolò, il 17enne bloccato per due volte a Wuhan e dimesso nella tarda mattinata di sabato dallo Spallanzani di Roma, in un'intervista al quotidiano 'La Repubblica'.

"Altro che involtini primavera e biscotti della fortuna: nella Cina che ho visto io non esistono. Invece ogni venerdì mi facevano trovare i ramen con la carne e l’anatra alla pechinese, come forse sapete ha bisogno di qualche giorno di preparazione. A scuola avevamo tre turni: sveglia per me alle 5.45, studio fino alle 20.10 con vari break. Più stancanti le cinque ore consecutive in Italia - continua Niccolò - La professoressa Yu ha seguito il nostro percorso, quasi un’amica. Ho anche viaggiato tanto, sono andato sulla costa, a Dalian. E peccato per quello che è successo dopo, avevamo in programma con la famiglia ospitante un altro viaggio, a Shanghai".

Per il Capodanno cinese, la sua famiglia decide di andare a trovare i nonni a Sud, nella provincia di Hubei. L’aeroporto di Wuhan è l’ultimo segno di modernità. "Poi scopro una realtà di cento anni prima. Un villaggio di 50 case, un pianterreno a 5 gradi con il pollaio, una cucina nuova mai utilizzata, e fuori un calderone con la legna sempre acceso, per scaldarsi e prepararsi da mangiare. E si passa al dopo, a quando mamma Jessica chiama Niccolò per dirgli che ha letto di una epidemia in Cina. No, non può essere proprio lì, la Cina è enorme. E invece.

"Io cerco di informarmi. Li Jun e Jiang Xian Xian mi rassicurano: siamo in campagna, qui non arriva nulla. È passato più di un mese e loro sono ancora lì, fra l’altro. Io comincio a informarmi, più che i giornali comincia a parlare il governo, WeChat apre una sezione sul coronavirus. - racconta Niccolò - E io, pur circondato di affetto, mi ritrovo solo davanti a una decisione da prendere: tornare subito, prima che chiudano tutto. È il 27 gennaio, e voglio prendere quell’aereo non tanto per me, quanto per la mia famiglia".

"Il medico del villaggio mi misura la febbre, 37, un comune raffreddore, dice lui. Io forse mi faccio prendere dall’ansia. All’aeroporto otto ore di attesa, mi metto nel punto più lontano: lo scalo è aperto solo per i voli di rimpatrio. Mi fermano davanti allo scanner termico e mi dicono: vieni giù, dobbiamo farti altri controlli. Mi misurano la febbre altre quattro volte, e poi decidono di rimandarmi all’ospedale di Wuhan. - prosegue Niccolò - Sono stato nel focolaio dei focolai, e non ho preso nulla, semplicemente perché ho adottato delle semplici precauzioni. In ospedale mi hanno fatto Tac, prelievi e tamponi. Ho capito che dicevano: 'Non può tornare in Italia'. E così sono riandato fuori, affidato al volontario Tian, che veste sempre con tuta e una specie di scafandro ma davanti a un hamburger se la toglie per non spaventarmi".

"Ritorno in aeroporto sabato 8 febbraio, e c’è un volo dell’Inghilterra, anzi del Regno Unito su cui potrei trovare posto. Ma lo scanner termico tradisce ancora, ci mettono dieci minuti a trovarmi una vena, e il Regno Unito dice no. Torno in hotel con Tian. Una settimana dopo, il volo attrezzato mi riporta in Italia. Due settimane di quarantena, anche in compagnia di un libro: la storia di un paraplegico che attraversa l’Atlantico in catamarano, il senso è quello di non arrendersi mai".

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