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Saviano in tribunale: "Vivere sotto scorta è un inferno"

19 ottobre 2020 | 16.54
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Lo scrittore al processo per le minacce dei Casalesi: "Accesi un faro su un animale che viveva al buio. Ora la mia è quasi una non vita"

Immagine di repertorio (Foto Fotogramma)
Immagine di repertorio (Foto Fotogramma)

“Quell’elenco di nomi, in cui venivano additati anche ‘pseudogiornalisti’ sembrò un elenco funesto a tutti i nominati, non solo a me. Il messaggio intimidatorio per me erano i nomi alla fine del documento, la firma dei due boss, Bidognetti e Iovine. Un messaggio con una scelta precisa: indicare i responsabili della loro condanna”. Lo ha detto Roberto Saviano oggi in Tribunale a Roma sentito al processo in corso al boss del clan dei Casalesi, Francesco Bidognetti e agli avvocati Michele Santonastaso e Carmine D'Aniello, per le minacce rivolte in aula a Napoli, nel 2008 nel processo d’Appello ‘Spartacus’, allo scrittore e alla giornalista Rosaria Capacchione. L'accusa è di minacce aggravate dal metodo mafioso.

“Parlare dei Casalesi fu come accendere un faro su un animale abituato a vivere al buio, prima di Gomorra il clan raramente finiva sulle cronache” ha detto lo scrittore, la cui vita è stata stravolta proprio pochi mesi dopo la pubblicazione del noto romanzo. "Venni invitato a parlare a Casal di Principe nel 2006, dove interveniva l’allora presidente della Camera Fausto Bertinotti. Dal palco feci i nomi dei boss Zagaria e Schiavone e rivolgendomi a loro dissi ‘non siete di queste terre, siete assassini’. In piazza scese il silenzio – ha ricordato Saviano - La scorta di Bertinotti mi disse ‘tu non te ne vai senza di noi’. Da quel momento iniziarono le minacce, come i volantini col mio volto e una pistola puntata alla tempia con la scritta ‘condannato’. Da quel momento decisero di darmi una protezione, per due settimane, mi dissero, invece da allora sono 15 anni che vivo sotto scorta”.

“In carcere girava voce che c’era un ordine del clan per uccidermi. Contemporaneamente comparirono scritte sui muri contro di me, ad ogni nuova minaccia aumentava il rischio e per me significava spostamenti continui e aumento della protezione. Non credo che una sentenza possa ripagarmi per tutto questo, è quasi una non vita – ha concluso Saviano - Si è fatta una battaglia politica sulla mia scorta ma vivere sotto scorta è un dramma, un inferno che io non ho mai chiesto. L’unico senso di colpa che ho è verso i miei familiari, io ho scelto, mentre loro hanno subito una mia scelta”.

Come parte civile al processo sono presenti la Federazione Nazionale della Stampa, rappresentata dall'avvocato Giulio Vasaturo. Tre anni fa era stata dichiarata nulla la sentenza di primo grado dalla Corte di Appello di Napoli per incompetenza territoriale e il procedimento è stato trasferito a Roma.

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