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Cauda: "Lockdown a Milano e Napoli? Serve attesa armata"

28 ottobre 2020 | 12.19
LETTURA: 3 minuti

L'infettivologo del Gemelli: "'Siamo nel terzo scenario prospettato dagli esperti Iss, al quarto non resta che il blocco"

Roberto Cauda (Adnkronos)
Roberto Cauda (Adnkronos)

Se il mondo politico e gli stessi scienziati dibattono sull'opportunità di ulteriori lockdown mirati in grandi città come Milano e Napoli, "l'approccio potrebbe essere quello di un''attesa armata', come si dice in termini guerreschi". A spiegarlo all'Adnkronos Salute è Roberto Cauda, ordinario di Malattie infettive all'Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore dell'Unità operativa di Malattie infettive della Fondazione Policlinico Gemelli Irccs di Roma. "Covid ci ha insegnato a navigare a vista, e mi sento di spendere una parola in difesa di chi deve prendere le decisioni: siamo di fronte a una situazione che evolve in modo esponenziale, ma occorrono 10-15 giorni per vedere gli effetti delle misure adottate, che sono state modulate tenendo conto della pandemia sanitaria, ma anche di quella economica".

Insomma, "direi di attendere gli effetti delle misure dell'ultimo Dpcm, ma allo stesso tempo essere pronti a reagire: la nostra deve essere un'attesa armata - ribadisce l'infettivologo - consapevoli del fatto che è possibile un'evoluzione tale da comportare, nei prossimi giorni, ulteriori chiusure mirate. D'altronde siamo ormai nel terzo scenario prospettato dallo studio dell'Istituto superiore della sanità, e al quarto c'è il lockdown. In questa terza fase è possibile procedere a mini-lockdown mirati, le cosiddette zone rosse localizzate, per frenare la corsa del virus".

Covid-19 "è una malattia di facile diffusione: ora siamo al 12-13% di tamponi positivi sul totale, mentre in estate eravamo allo 0,5-0,6% e in primavera al 20%", ricorda Cauda.

"Nel frattempo è scattato l'obbligo delle mascherine all'aperto e sono stati contrastati gli assembramenti. La ricerca ci dice che queste misure sono efficaci, ma non bastano a fermare i contagi: l'obiettivo è quello di rallentare la corsa del virus - spiega - in modo da evitare uno tsunami che travolgerebbe gli ospedali, impedendo di fatto la cura delle patologie non Covid. Ricordiamo anche che i contagi quotidiani riflettono quello che è accaduto 15 giorni fa, e che il tasso di occupazione delle terapie intensive è del 19%: attendiamo (e speriamo), consapevoli di una possibile evoluzione della pandemia e della possibilità di decisioni più restrittive. Un'attesa armata, insomma".

Intanto, Cauda fa il punto anche sull'uso a volte evitabile dei pronto soccorso, dove si moltiplicano gli arrivi di persone con appena qualche linea di febbre. Pazienti che vengono visitati, tamponati e mandati a casa, ma che rischiano di inceppare il sistema. "E' vero, gli italiani hanno paura - riflette l'infettivologo -. D'altronde adesso chi ha un po' di mal di gola o 37,1 di febbre pensa subito a Covid, e il virus spaventa", nonostante la stragrande maggioranza di persone risolva l'infezione quasi senza cure. Cosa fare allora? "Penso che la soluzione arrivi dal territorio".

"Le persone hanno bisogno di risposte e rassicurazioni. Ebbene, l'unica lezione utile che ci è arrivata da questa pandemia - ricorda Cauda - è che occorre potenziare la sanità territoriale: nel Lazio le Uscar attivate dall'assessorato alla Sanità stanno operando come 'filtro', valutando i pazienti che hanno bisogno di cure ospedaliere e quelli che possono essere seguiti a casa. Un filtro utile anche contro la paura, che insieme al virus minaccia l'operatività degli ospedali. Ecco, penso sia opportuno implementare l'opera di questi medici, dei medici di famiglia e dei pediatri di libera scelta, 'sentinelle' sul territorio in grado di dare risposte alle decine di migliaia di italiani con Covid-19 seguiti a casa".

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