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Sport: tutti i no al razzismo, da Berlino '36 a Dani Alves

29 aprile 2014 | 17.56
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Roma, 29 apr. - (Adnkronos/Ign) - Dani Alves che mangia la banana. "La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà", dicevano gli anarchici e poi i giovani del '68, puntando sull'ironia. Proprio come fatto dal calciatore brasiliano del Barca: raccoglie il frutto, lo sbuccia e ne mangia un pezzo, facendo d'incanto sparire quella provocazione razzista che accomuna tutti (o quasi) gli stadi europei. Ai tempi di Internet il suo gesto diventa virale, e in poche ore sono migliaia i selfies di chi imita Alves, immortalandosi mangiando la banana con il sottotitolo che recita "Siamo tutti scimmie, ovvero nessuno è una scimmia".

Lo sport è specchio del tempo, e gli stadi sono le arene della modernità, dove spesso gesti immediati e visti in mondovisione diventano simboli, restando nella memoria collettiva. Gesti coraggiosi, che sfidano il potere, vanno contro i pregiudizi, creano una moda, fanno emergere dignità, solidarietà, e coscienza civile. Nel 1936 Berlino ospita le Olimpiadi, nella Germania di Hitler che del razzismo aveva fatto la sua ideologia, l'atleta di casa Luz Long, appena 19enne, gareggiò nel salto contro l'americano Jesse Owens, un atleta di colore. Non risparmiando al rivale consigli su come affrontare la prova e svelandogli i segreti della pista olimpica. Poi i due si ritrovarono in finale, e il tedesco, battuto, non si nascose, congratulandosi con Owens, sotto lo sguardo impietrito di Hitler, nel silenzio di gelo dello stadio nazista.

Altra immagine dalle Olimpiadi: 32 anni dopo Berlino, a Città del Messico, in piena rivolta studentesca, siamo nel '68, gli americani di colore, Tommie Smith e John Carlos sul podio alzano una mano coperta da un guanto nero, segno del black power. Con loro l'australiano Peter Norman, che indossa il distintivo del 'Progetto Olimpico per i Diritti Umani'.

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