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Fisco: motivi sentenza Dolce e Gabbana, non potevano non sapere

23 giugno 2014 | 18.07
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"Non è minimamente credibile che gli stilisti, messi al corrente del progetto, confidassero di poter operare legittimamente. L'affidare la cura dei propri affari ad altri non esime dall'essere tenuti a fornire direttive cui si impronta l'attività del delegato". È quanto si legge nelle motivazioni con cui i giudici d'appello di Milano hanno condannato a un anno e sei mesi, pena sospesa, gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, imputati insieme ad altre quattro persone per una evasione fiscale su un imponibile di circa 200 milioni di euro realizzata con un'operazione di esterovestizione con la 'Gado', una società del gruppo costituita in Lussemburgo.

"In questo caso poi - si legge nelle motivazioni - i rapporti erano intrattenuti con referenti consolidati e nell'ambito di un'attività economica condivisa, quanto a Dolce, con i familiari. Vi è poi da dire come si presenti irrilevante l'eventuale ignoranza che vada a ricadere sulla legge penale, di cui fà parte la disciplina tributaria integrativa del precetto, a fronte del dolo intenzionale di omettere il pagamento del tributo in Italia".

In base "agli elementi acquisiti può dunque ritenersi provato che la Gado fosse solo fittiziamente allocata in Lussemburgo" e che "la sede dell'amministrazione, il nucleo direzionale e comunque il luogo ove veniva esercitata l'attività principale per la realizzazione degli scopi primari di Gado andava sempre individuato in Italia e precisamente nel luogo nel quale era gestita la Dolce & Gabbana srl".

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