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Guerra del Golfo, l'ambasciatore italiano: "Io, Saddam e i nostri ostaggi"

16 gennaio 2021 | 15.27
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Franco Tempesta racconta l''avventura' a Baghdad: "Ho temuto di essere usato come scudo umano"

(Fotogramma)
(Fotogramma)

La crisi degli italiani in ostaggio del governo iracheno, l'incontro con Saddam Hussein, la paura di essere usato come scudo umano, il ritorno a Roma ed i colloqui con De Michelis e Cossiga. Franco Tempesta fu l'ambasciatore italiano a Baghdad durante la prima guerra del Golfo, di cui domani ricorre il trentesimo anniversario. In un'intervista ad Aki-Adnkronos International racconta quel periodo in Iraq concitato e "stimolante" dal punto di vista professionale, che - non nasconde - lo coinvolse "emotivamente moltissimo".

Tempesta arrivò a Baghdad nel maggio del 1990. Quello stesso mese incontrò il rais Saddam Hussein, cui sottopose le credenziali di ambasciatore. "Era un signore elegante, aveva un sarto portoghese nel suo staff - inizia il racconto Tempesta - Aveva un modo di fare molto pacato che, si scoprì in seguito, nascondeva dei segreti orribili e sanguinari, ma da buon cristiano ho provato grande compassione quando lo impiccarono".

Durante quel colloquio, che durò alcuni minuti, "Saddam parlò poco, si limitò ad un saluto e ad annuire, mentre io feci un piccolo pistolotto in cui utilizzai molto il nome del presidente Andreotti, che era apprezzato in Medio Oriente, e nominai tutti gli esponenti del governo più attivi nel mondo arabo".

L'esperienza dell'ambasciatore a Baghdad, tuttavia, fu segnata senza dubbio dalla vicenda dei circa 600 italiani che dal 2 agosto 1990, giorno dell'invasione del Kuwait da parte delle forze irachene, furono trattenuti dal regime per evitare di subire attacchi nella capitale. Quella situazione si sbloccò solo quattro mesi dopo, all'inizio di dicembre, con la partenza di tutti gli ostaggi.

"Il mio primo contatto con gli ostaggi fu l'8 agosto in un teatro all'interno dell'Istituto di cultura - afferma Tempesta - Arrivai e la sala era strapiena di gente nervosissima, in gran parte tecnici di aziende petrolifere. Il direttore dell'Istituto di cultura aveva organizzato una cattedra con tutte le sedie davanti, ma io decisi di sedermi in mezzo a loro e questo credo che li spiazzò. Le mie prime parole furono 'Vi posso assicurare che presto partirete dall'Iraq, ma quando partirete io non lo farò perché voi siete ostaggi di Saddam e io sono il vostro'. Queste parole cambiarono radicalmente il loro atteggiamento nei miei confronti".

Il lavoro dell'ambasciata italiana in quei mesi fu frenetico per soddisfare le richieste e le esigenze di tutti gli ostaggi, che erano riuniti in gran parte nell'Hotel Babilon sotto la sorveglianza delle forze irachene, mentre altri "più controllati" si trovavano in un altro albergo soprannominato "La Botola", prosegue l'ambasciatore che cita alcuni episodi di autolesionismo di cui furono protagonisti alcuni italiani nel tentativo di ottenere il via libera per lasciare l'Iraq.

"Ci giunse notizie che un paio di giovani si stavano nutrendo di chili e chili di zucchero per risultare diabetici, altri si facevano visitare dall'oncologo sostenendo di essere malati di tumore. Un gruppo di milanesi scapparono di nascosto e furono arrestati alla frontiera con la Siria dalla polizia irachena che per fortuna me li riconsegnò in ambasciata", ricorda Tempesta.

Tutti i Paesi occidentali si mobilitarono per la liberazione dei loro ostaggi, ricorrendo anche ad artisti e personalità che ritenevano potessero giovare alla causa. Gli Stati Uniti, ad esempio, mandarono Cassius Clay, che era diventato musulmano. Per l'Italia arrivò "Mario Capanna, ma combinò ben poco", mentre il governo fermò all'ultimo la partenza di Maria Pia Fanfani, allora presidente del Comitato nazionale femminile della Croce rossa, rimarca Tempesta, elogiando la linea seguita da Roma - allora presidente di turno dell'Ue - in quella crisi.

"Il governo fece molto bene, fu inflessibile nel non trattare con i sequestratori e tutti i Paesi europei seguirono questa regola. Al contrario di quanto fatto da Conte e Di Maio che hanno passato in rassegna le truppe di Haftar" per ottenere il rilascio dei pescatori trattenuti a Bengasi, osserva l'ambasciatore.

In quei mesi a Baghdad ci furono momenti molto duri per Tempesta. "Mi mise molta preoccupazione la voce fatta circolare dal governo iracheno che in caso di attacco occidentale gli ambasciatori sarebbero stati portati al fronte e sistemati come scudi umani", evidenzia, sottolineando lo spirito con il quale la missione italiana lavorava: "Ci sentivamo protagonisti di qualcosa di utile, ci si aiutava, mentre alcuni ambasciatori scapparono con la coda tra le gambe".

Quel conflitto fu il primo trasmesso in diretta dai network di tutto il mondo e, secondo Tempesta, in un certo senso cambiò il rapporto delle persone con la guerra, avvicinandola a uno "show'. "Per tutto quel periodo ho avuto contatti quotidiani con decine giornalisti, ma due su tutti - Fabrizio Del Noce e Lucia Annunziata - mi hanno lasciato un'impressione estremamente positiva. Poi c'era un nugolo di reporter che erano lì per fare titoli e che facevano domande discutibili agli ostaggi. Molti non degni del nome di giornalista", dichiara.

Secondo Tempesta, la Guerra del Golfo fu una guerra delle Nazioni Unite perché fu scatenata sulla base di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizzò l'uso della forza per ripristinare l'ordine internazionale. "La finalità era liberare il Kuwait e per questo motivo - spiega - alla fine del conflitto Bush padre, che era un diplomatico di carriera, non detronizzò Saddam".

L'ambasciatore conclude ricordando il suo incontro con il presidente Cossiga al rientro in Italia, dove l'allora ministro degli Esteri De Michelis lo aveva richiamato nel gennaio del 1991 per consultazioni sullo scoppio imminente della guerra. "Mi ricevette pochi minuti mentre stava incontrando i parenti del giovane Augusto De Megni, che era stato liberato in Sardegna, e mi presentò come l'eroe di Baghdad. Cossiga mi fu vicino per tutta la crisi".

De Michelis voleva che Tempesta tornasse a Baghdad per dare un segnale alla comunità internazionale di disponibilità al dialogo con Saddam e l'8 gennaio l'ambasciatore si recò in aeroporto per volare alla volta dell'Iraq.

"Ad un tratto dall'altoparlante sentì che ero desiderato al telefono. Era l'allora direttore generale della Farnesina che mi chiedeva di restare a Roma su pressioni dell'allora segretario di Stato americano, James Baker. Tornai al ministero degli Esteri e diedi disposizioni per evacuare l'ambasciata a Baghdad - conclude - Da lì a un mese l'Iraq ruppe i rapporti diplomatici con l'Italia ed i nostri interessi a Baghdad vennero curati dall'ambasciata ungherese".

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