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Clima: la ricerca, sempre più neri i ghiacciai dello Stelvio

29 luglio 2019 | 15.02
LETTURA: 4 minuti

Confronto tra due ortofoto (credits, Infrastruttura Informatica Territoriale, Geoportale Regione Lombardia)
Confronto tra due ortofoto (credits, Infrastruttura Informatica Territoriale, Geoportale Regione Lombardia)

I ghiacciai dello Stelvio sono sempre più neri. Un fenomeno che ha come effetto quello di renderli più vulnerabili e fragili di fronte ai cambiamenti climatici perché così diminuisce sensibilmente la capacità del ghiaccio di riflettere la radiazione solare, chiamata 'albedo'. Insomma, una superficie chiara, come la neve fresca, ha un valore di 'albedo' particolarmente elevato e pertanto riflette la maggior parte della radiazione solare incidente; una superficie scura, come una roccia, ha un valore di albedo molto più basso e pertanto solo una minima parte della radiazione solare viene riflessa.

La scoperta è stata fatta da un gruppo di giovani ricercatori dell’Università Statale di Milano e pubblicata su Global and Planetary Change (“New evidence of glacier darkening in the Ortles-Cevedale group from Landsat observations”). La ricerca, realizzata dal Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali e che per la prima volta ha analizzato 40 anni di dati dei satelliti Landsat, mostra l’annerimento dei ghiacciai del gruppo dell’Ortles-Cevedale, nel Parco Nazionale dello Stelvio, dagli anni ‘80 fino ad oggi, un cambiamento dovuto all’accumulo di detriti e all’inquinamento.

A coordinare la ricerca, Davide Fugazza che ha osservato i dati attraverso un algoritmo che, a partire dalle immagini satellitari, permette di ottenere un valore di albedo (o riflettività della superficie) tramite specifiche correzioni per gli effetti dell’atmosfera e della topografia. Un albedo minore implica un maggior assorbimento di radiazione solare da parte del ghiaccio e una maggiore fusione, con importanti ricadute sullo stato di salute del ghiacciaio.

Analizzando l’archivio delle immagini Landsat dall’inizio degli anni ’80 fino ai giorni nostri, i ricercatori hanno scoperto che per la maggior parte dei ghiacciai studiati si è verificato un sensibile decremento dell’albedo. In altre parole, un annerimento del ghiacciaio. Ma quali possono essere le cause di questo annerimento?

Tra le principali cause c’è l’aumento della copertura detritica, proveniente dalle pareti rocciose circostanti il ghiacciaio, che si riversa su di esso a seguito dell’aumento delle temperature, che provoca maggiore instabilità dei versanti. L’aumento delle temperature causa anche la fusione precoce della neve caduta in inverno e una maggiore esposizione del ghiaccio durante l’estate.

Un importante contributo all’annerimento viene però anche da polveri trasportate attraverso l’atmosfera, siano esse di origine naturale (principalmente deserti) o antropica (particolato fine proveniente dalla combustione dei motori diesel e dalle attività industriali della pianura padana e dagli incendi boschivi, il cosiddetto black carbon) oltre che dall’azione dei microrganismi come alghe e batteri.

“Si tratta del primo studio in cui l’entità dell’annerimento viene valutata su ghiacciai dell’arco alpino in un periodo di tempo così ampio, – commenta Davide Fugazza - Conoscere l’intensità di questo fenomeno permette di stimare la fusione del ghiaccio in maniera più accurata, valutare gli effetti dell’annerimento sul regresso dei ghiacciai e sviluppare modelli previsionali per ottenere indicazioni sulla sensibilità dei ghiacciai ai cambiamenti climatici”.

Per convalidare i dati raccolti tramite satellite sono stati utilizzate anche le osservazioni dalla stazione meteorologica permanente dell’Università Statale, installata nel 2005 sul ghiacciaio dei Forni e da allora ininterrottamente funzionante.

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