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Il business degli abiti usati: Roma 'fa la furba', Milano finanzia il sociale

10 ottobre 2015 | 13.00
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Un cassonetto per la raccolta della cooperativa Città e Salute a Milano
Un cassonetto per la raccolta della cooperativa Città e Salute a Milano

La raccolta di abiti usati è un vero e proprio business. Frutta migliaia di euro che andrebbero destinati a progetti solidali. Ma, come dimostra il caso Roma, non sempre le cose vanno per il verso gi usto. Un'indagine dell'Adnkronos mette a confronto la realtà della Capitale, su cui è intervenuta l'Antitrust con una sanzione all'Ama e ai consorzi coinvolti, e quella milanese, dove si è innescato invece un circolo virtuoso che consente ogni anno a Caritas di reinvestire l'utile di 350mila euro, che viene destinato a progetti di utilità sociale.

Il sistema milanese è ormai collaudato. Circa 25mila euro arrivano dalla cooperativa Città e Salute associata alla Compagnia delle Opere, i restanti dal lavoro di sei cooperative riunite nel consorzio R.I.U.S.E. che fa capo alla Caritas Ambrosiana. Ma in realtà a disporre di quella cifra per fini benefici è comunque Caritas, a cui Città e Salute cede il 12,5% del ricavato di ogni mese. Una situazione molto diversa da quella denunciata a Roma dall’Antitrust, che ha multato l’Ama (100mila euro) insieme ai consorzi Sol.co (100mila) e Bastiani (10mila) per pratiche commerciali scorrette: sui cassonetti di raccolta di loro proprietà si leggeva “aiutaci ad aiutare”, senza che il ricavato venisse effettivamente donato in beneficenza.

Il sistema di affidamento è simile a Roma e Milano. Nel capoluogo lombardo, nel 1998 il Comune ha favorito una convenzione tra Amsa, Caritas e Compagnia delle Opere per la gestione del settore, che vale il 2% dei costi di smaltimento dei rifiuti indifferenziati. Il Comune non ha oneri aggiuntivi, Amsa si occupa di tenere in ordine la zona circostante i cassonetti, tutto il resto è nelle mani delle onlus: acquisto dei contenitori, manutenzione, raccolta, vendita. La convenzione è stata ri-firmata nel 2000 e viene automaticamente rinnovata finché non sarà rescissa. L’accordo prevede che gli abiti possano essere venduti a terzi impiegando personale svantaggiato e che i ricavi (dal guadagno vanno sottratte le spese del personale, amministrative, dei trasporti e di manutenzione) siano investiti a fini umanitari.

Situazione simile in Lazio: i due consorzi Sol.co. e Bastiani hanno iniziato a svolgere il servizio sotto forma di Ati (Roma ambiente) nel 2003 e sono stati rinnovati; l’iniziativa nasceva per evitare lo sfruttamento illegale degli abiti di seconda mano e valorizzarne le potenzialità sociali, impiegando personale svantaggiato senza costi per il pubblico e creando un sistema industriale del trattamento di abiti usati. La finalità sociale della raccolta a Roma, però, è stata messa in discussione da Agcm, che nella sanzione all'Ama e ai consorzi precisa: "Solo la raccolta attraverso il canale alternativo delle associazioni benefiche e delle parrocchie effettua la raccolta a fini benefici e non commerciali.”

Dal 1998, invece, Milano ha seguito le fila di un percorso virtuoso. Di anno in anno, la Caritas milanese sceglie quali progetti finanziare tramite la raccolta di abiti usati. Nel 2014, con 317mila euro raccolti dalle cooperative R.I.U.S.E. (VestiSolidale, Ezio, Padre Daniele Badiali, Di mano in mano, Spazio aperto e Abad) vendendo 8mila tonnellate di abiti raccolti sul territorio diocesano, sono stati finanziati 7 progetti sociali. Quelli in programma per il 2015 ruotano intorno al tema cibo, in occasione di Expo: mense serali per i poveri, orti condivisi e distribuzione di pasti.

Tenendo conto di una spesa media di 40mila euro a progetto e delle 10mila tonnellate di abiti raccolte annualmente nei 1776 cassonetti di Roma, il comune capitolino avrebbe il potenziale di vederne finanziate almeno otto all’anno, se i consorzi donassero effettivamente in beneficenza il 10% del ricavato (350mila euro). Per questo motivo, le scritte apposte sui cassonetti romani “Aiutaci ad aiutare” e “Grazie per il vostro aiuto”, giudicati “ingannevoli” dall’Antitrust, sono stati cancellati. Sul sito di Ama adesso si leggono le reali finalità della raccolta svolta da Sol.co. e Bastiani: commercializzazione e vendita dei capi in buone condizioni, recupero di materia e smaltimento in impianti autorizzati dei rifiuti non recuperabili.

Sui cassonetti di Milano si legge invece “Dona valore”, sui 243 di Caritas, e “Dai vita al tuo usato” sui 201 della Compagnia delle Opere gestiti da Città e Salute. Quando una volta a settimana vengono svuotati, il 10% degli abiti - in buono stato - viene donato ai poveri che si affidano alle parrocchie; il restante 90% viene venduto a grandi aziende e centri di recupero autorizzati a un prezzo che oscilla tra i 20 e i 35 cent. al kg. Lì, viene fatta un cernita in base al materiale e alla qualità: se ne ricava altro materiale (60%), pezzame industriale (35%) e un 5% di rifiuti da smaltire.

Un kg corrisponde a circa 4 capi di abbigliamento. Nel solo periodo gennaio-giugno 2015, nel comune di Milano, Caritas ha raccolto 845mila kg di abiti, in lieve aumento rispetto allo stesso periodo 2014 (834mila). Un lavoro di altrettanto valore fa Città e Salute (Cdo), con una media di 1 milioni di chili all’anno (circa 100mila al mese). Tre contenitori su quattro a Milano si incontrano sui marciapiedi; i restanti si trovano in aree private (parrocchie, circoli e affini, la onlus Humana ne ha 12).

Un cassonetto di raccolta costa 500 euro ed è a spese delle cooperative. A cui vanno aggiunti i costi di manutenzione, visto che sono oggetto di frequenti furti e scassi. “Il problema non è tanto il danno economico causato dai furti - denuncia il presidente di Città e Salute Pier Vito Antoniazzi - ma il vandalismo che lascia l’area sporca e in disordine. I cittadini si lamentano del degrado. Abbiamo anche cercato di rendere i cassonetti più sicuri inserendo della gomma laterale, ma con scarsi risultati”.

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