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Jobs Act: l'indagine, ad aziende riforma piace ma non è sufficiente

16 ottobre 2015 | 14.35
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Jobs Act: l'indagine, ad aziende riforma piace ma non è sufficiente

Alle aziende la riforma del Jobs Act piace, ma non è sufficiente. E' quanto emerge da un'indagine, rivolta ad aziende nazionali e internazionali operanti nel territorio italiano, realizzata da De Luca & Partners, studio legale specializzato nel campo del diritto del lavoro. Al sondaggio hanno contribuito oltre 200 tra amministratori delegati, general counsel e direttori del personale di importanti compagnie, di cui il 40% appartiene a gruppi internazionali.

L’84% del campione è stato positivamente colpito dalle riforme avviate dal Jobs Act, grazie alle quali il diritto del lavoro ha potuto compiere un 'sostanziale progresso'. Chi si è dichiarato favorevole ai cambiamenti attuati con il Jobs Act apprezza in particolar modo la possibilità data alle imprese di aumentare le assunzioni e promuovere gli investimenti (46%), oltre a determinare un maggiore equilibrio tra i diritti delle parti del rapporto di lavoro (40%).

Tuttavia, solo il 32% degli intervistati ha dichiarato di aver visto crescere significativamente il numero di lavoratori assunti a tempo indeterminato nella propria azienda a partire dal marzo 2015.

Incentivi alle assunzioni e semplificazione sono gli aspetti della riforma che convincono maggiormente sia le aziende, sia i dipendenti: il 69% di loro ritiene, infatti, che il contratto a tutele crescenti e l’esenzione contributiva introdotta dalla legge di stabilità siano i principali vantaggi offerti dal Jobs Act. Senza dimenticare, inoltre, l’abolizione dell’obbligo di indicare la causale per le assunzioni a tempo determinato (34%), il riordino delle tipologie contrattuali (30%) e la revisione della disciplina delle mansioni (28%).

Inoltre, nonostante l’applicazione del contratto a tutele crescenti per i neoassunti, non si è registrato un blocco del turnover all’interno delle aziende. Al contrario, 7 su 10 dei partecipanti all'indagine (72%) hanno dichiarato che la riforma non ha influito sulla propensione dei lavoratori a cambiare lavoro.

In un mercato del lavoro tradizionalmente statico come quello italiano, la percezione è che si possa e si debba ancora fare molto: il 58% degli intervistati, infatti, ritiene che la riforma non sia sufficiente a raggiungere l’obiettivo di maggiore flessibilità nella gestione dei rapporti di lavoro.

L’ostacolo maggiore agli investimenti e alle assunzioni è, secondo il 79% del campione, l’elevato costo del lavoro, seguito dalle difficoltà create dalla burocrazia (52%) e da una normativa troppo complessa (49%). Non solo: a spaventare le aziende sono anche la scarsa flessibilità in uscita per i vecchi assunti (42%) e la mancanza di chiarezza in materia previdenziale e assistenziale (32%).

E di fronte alla domanda che chiede quali aspetti della riforma debbano essere migliorati, non ci sono dubbi: l’esigenza diffusa è una riduzione del cuneo fiscale (73%) e del costo del lavoro (70%), senza però trascurare la diminuzione degli adempimenti burocratici a carico di datori di lavoro e lavoratori (53%), la riduzione dei tempi di giustizia (42%) e la semplificazione della normativa previdenziale e assistenziale (40%).

Dal punto di vista strettamente contrattuale, invece, ben il 40% degli intervistati ritiene necessario poter applicare il contratto a tutele crescenti a tutti i rapporti di lavoro subordinati e non solo a quelli instaurati a decorrere dal 7 marzo 2015.

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