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L'agenda rossa di Borsellino, un mistero che dura da 27 anni

15 novembre 2019 | 06.50
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Dopo la strage di Capaci il giudice aveva iniziato a scrivere appunti. Non si è mai saputo su cosa. Borsellino quater, attesa per oggi la sentenza

(Fotogramma)
(Fotogramma)

di Elvira Terranova
Un mistero lungo 27 anni. Un vero e proprio buco nero. Destinato, forse, a non trovare soluzione. Un'agenda dell’Arma dei Carabinieri, con la copertina rossa e rigida, diventata suo malgrado, il fulcro di un mistero irrisolto. Si tratta dell'agenda che il giudice Paolo Borsellino teneva sempre con sé. Non se ne separava mai. Eppure, dopo la strage in cui fu ucciso insieme con i cinque agenti della scorta, avuta in dono all’inizio dell’anno, non è mai stata ritrovata.

Secondo quanto raccontato dai suoi più stretti collaboratori, e dopo l’attentato a Giovanni Falcone, il giudice aveva iniziato a scrivere una serie di appunti. Ma cosa c'era scritto? Nessun lo saprà mai. Forse. Secondo il fratello di Paolo Borsellino, Salvatore, come ha ripetuto più volte, "c'era qualcuno che aspettava per fare sparire l'agenda rossa e per impadronirsene". Per il fratello del giudice "quell'agenda è stata sottratta perché doveva servire per gestire i ricatti incrociati con i nomi". E ha sempre sottolineato "una scellerata congiura del silenzio che è durata per 20 anni".

L'agenda rossa è stata anche citata più volte nella sentenza di primo grado del processo 'Borsellino quater'. I giudici della Corte d'assise di Caltanissetta, parlano di "connessione" quando si riferiscono ai "collegamenti" tra la scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino e il depistaggio di Stato nelle indagini sulla strage di via d’Amelio. Un depistaggio che - come aveva ribadito in Commissione antimafia il pm Nino Di Matteo, oggi consigliere del Csm - era iniziato subito dopo la strage (due anni prima dal momento in cui Di Matteo si era occupato delle indagini) per creare prove false, con una sorta di “fonte” della Polizia capace di fornire notizie, anche vere, da mettere in bocca al “pupo” Vincenzo Scarantino.

Per i giudici di primo grado, l’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera per i giudici ebbe un “ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell'agenda rossa”. Nel 2010 sul conto dell’ex Dirigente della Mobile di Palermo era emerso un dato inquietante e cioè che La Barbera era stato affiliato al Sisde dall’86 all’88 con il nome in codice di “Rutilius”.

Un’affiliazione avvenuta grazie all’interessamento del suo amico all’interno del Servizio civile, Luigi De Sena. Quella collaborazione evidentemente non si era interrotta nel 1988, tanto che la procura di Caltanissetta lo aveva definito un “protagonista assoluto dell’intera attività di depistaggio” nelle indagini su via d’Amelio.

Ma c'è un fatto. Incontrovertibile. Alle 18.30 del 19 luglio ‘92 la valigetta di Paolo Borsellino si materializza nell’ufficio del dirigente della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera. Ma al suo interno non c’è l’agenda rossa. Contenente "una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività svolta da Borsellino nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci”.

Ma cosa poteva aver scritto in quella agenda Paolo Borsellino? “Poiché l’attività di determinazione così accertata ha consentito di realizzare uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana – evidenziano i giudici nel documento di 1856 pagine – è lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento”. Quale regia occulta ha impostato questa strage e per quale motivo? Un fatto è certo: quel giorno, il 19 luglio 1992, Paolo Borsellino aveva messo la sua agenda rossa in borsa. Come hanno anche testimoniato la moglie Agnese Piraino e il figlio Manfredi. Ma nella 24 ore sono stati trovati il costume da bagno che il giudice aveva utilizzato poche ore prima al mare, un paio di occhiali da sole, altri effetti personali. E basta.

Dopo la strage di Capaci, Paolo Borsellino scriveva spesso i suoi appunti in quell'agenda rossa. Il suo collaboratore fidato, l’allora tenente Carmelo Canale gli disse un giorno: “Ma che fa, vuole diventare pentito pure lei?”. E lui, il giudice, rispose serio: "Sono successi troppi fatti in questi mesi, anch’io ho le mie cose da scrivere". Proprio in quei giorni Borsellino, da procuratore aggiunto a Palermo, stava raccogliendo le prime rivelazioni di diversi pentiti di mafia di primissimo piano. Con lui aveva iniziato a collaborare Gaspare Mutolo, ex autista dell’allora latitante Totò Riina, che svelò i nomi delle “talpe” di Cosa nostra nelle istituzioni come l’ex numero 3 del Sisde, Bruno Contrada, o il magistrato Domenico Signorino. E in quei giorni aveva avuto notizia di un “dialogo” tra pezzi dello Stato e i mafiosi, cioè la “trattativa” di cui si sta occupando il processo in corso a Palermo a carico di alti ufficiali dei carabinieri, mafiosi, politici.

Sono stati i suoi familiari a denunciarne la scomparsa, attraverso il giudice Antonino Caponnetto, fino al 1990 a capo del Pool antimafia. Fu lui a volere accanto a sé Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il primo verbale di apertura della borsa fu redatto dalla Procura di Caltanissetta il 5 novembre 1992, cioè tre mesi e mezzo dopo la strage.

Un altro protagonista della vicenda così ingarbugliata è il colonnello dei carabinieri Giovanni Arcangioli, che era stato accusato di avere preso con sé l'agenda rossa sul luogo della strage. Ma nel 2008 venne prosciolto dal gup per non aver commesso il fatto. Il gup nisseno Paolo Scotto Di Luzio aveva chiuso così uno dei filoni d'indagine legati alla strage di via D'Amelio aperto grazie ad un'immagine televisiva: quella in cui si vedeva Arcangioli, allora comandante della sezione omicidi dei carabinieri di Palermo, allontanarsi da via D'Amelio con in mano la borsa del magistrato. La stessa borsa che pochi minuti dopo verrà ritrovata nell'auto blindata di Borsellino, e consegnata in Questura senza l'agenda che il magistrato portava sempre con sé e di cui hanno parlato i familiari e i principali collaboratori.

Altre polemiche si sono registrate negli anni anche attorno a un altro protagonista: Giuseppe Ayala, ex giudice del pool antimafia e amico di Paolo Borsellino. Come scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza di primo grado del processo Borsellino quater, "il teste, non senza alcune difficoltà mnemoniche, spiegava che non sapeva nemmeno che Paolo Borsellino teneva un’agenda nella quale annotava le proprie riflessioni più delicate". "Comunque, Ayala escludeva decisamente d’aver guardato dentro alla borsa di Paolo Borsellino, che pure passava fugacemente fra le sue mani, così come escludeva d’averla portarla via sulla autovettura blindata della propria scorta”.

Sono sempre i giudici di primo grado a spiegare che "già nell’immediatezza della strage, attorno all’automobile blindata del Magistrato ucciso, vi erano una pluralità di persone in cerca della sua borsa e di quello che la stessa conteneva, ivi compresi alcuni appartenenti ai Servizi Segreti”. Ma proprio chi notava la presenza “oggettivamente anomala, se non altro per i tempi” di quegli esponenti dei Servizi “non riteneva di riferire alcunché ai propri superiori gerarchici od ai Pubblici Ministeri".

Insomma, ai familiari di Paolo Borsellino “non veniva mai notificato alcun verbale di sequestro della borsa del loro congiunto ed alla vedova veniva mentito, considerato che il dottor Arnaldo La Barbera le diceva che detta borsa era andata distrutta nella deflagrazione, sebbene risulti (come detto) che il reperto giungeva nell’ufficio del Dirigente della Squadra Mobile di Palermo già nel pomeriggio del 19 luglio 1992”. E soprattutto, chi portava la valigetta di Borsellino nell’ufficio del Dirigente della Squadra Mobile di Palermo “non riteneva di dover fare alcuna relazione di servizio (almeno fino a cinque mesi dopo), né di dover far rilevare che vi erano degli appartenenti ai Servizi Segreti sullo scenario della strage”?.

Alcuni mesi dopo la strage Arnaldo La Barbera si recò personalmente a casa della signora Agnese Piraino, per la restituzione della borsa del marito. Una restituzione che “avveniva in maniera irrituale e frettolosa (ancora una volta, non veniva redatto alcun verbale, né consta alcuna relazione di servizio)”, dicono i giudici. In quella occasione, di fronte alle richieste della figlia, Lucia Borsellino, di riavere indietro anche l’agenda rossa del padre (che non risultava presente dentro la borsa fra gli altri suoi effetti personali), il Dirigente della Squadra Mobile di Palermo “con un atteggiamento infastidito e sbrigativo, affermava, in maniera categorica (ed apodittica), che non esisteva alcuna agenda rossa da restituire".

"Un atteggiamento, questo, che rivelava non solo una impressionante insensibilità per il dolore dei familiari di Paolo Borsellino, ma anche una aggressività volta a mascherare la propria evidente difficoltà a rispondere alle domande poste, con grande dignità e coraggio, da Lucia Borsellino, nel suo forte e costante impegno di ricerca della verità sulla morte del padre”, scrivono i giudici. Domande senza risposte.

Rimangono impresse le parole di Agnese Piraino, moglie di Paolo Borsellino, oggi deceduta: “Chissà, forse un uomo delle istituzioni ha in mano l’agenda rossa di Paolo: sono sicura che esiste ancora. Non è andata dispersa nell’inferno di via d’Amelio, ma era nella borsa di mio marito, borsa che è stata recuperata integra, con diverse altre cose dentro. Sono sicura che qualcuno la conserva ancora l’agenda rossa, per acquisire potere e soldi. Quell’uomo che ha trafugato l’agenda rossa sappia che io non gli darò tregua. Nessun italiano deve dargli tregua”. E oggi sarà emessa la sentenza di secondo grado del processo Borsellino quater.

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