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Coronavirus: l'anatomopatologo di Bergamo, 'tolto il camice non penso più alle cattive notizie'

04 aprile 2020 | 09.42
LETTURA: 5 minuti

Andrea Gianatti, 55 anni, è il direttore del dipartimento di anatomia patologica del Papa Giovanni XXIII, che assieme alla sua équipe lavora incessantemente eseguendo esami autoptici sui casi Covid-19

Immagine di repertorio (Afp)
Immagine di repertorio (Afp)

di Federica Mochi
All’ospedale di Bergamo ormai le ore di lavoro non si contano più. Ma oltre al lavoro di medici e infermieri che combattono in corsia c’è anche quello, certosino, effettuato nei laboratori di anatomia patologica. E' lì che presta servizio Andrea Gianatti, 55 anni, direttore del dipartimento di anatomia patologica del Papa Giovanni XXIII, che assieme alla sua équipe lavora incessantemente eseguendo esami autoptici sui casi Covid-19.

"Anche l'autopsia ora è stata adattata alla situazione che si è venuta a creare - spiega Gianatti all’Adnkronos - dato che il virus ha caratteristiche ancora non completamente chiarite. Noi abbiamo deciso di adottare il massimo delle precauzioni per questo ospedale, che è bene attrezzato. Abbiamo sale che ci permettono di lavorare in sicurezza e abbiamo approcciato una sorta di autopsia mini-invasiva. Significa che non procediamo alla dissezione completa degli organi ma effettuiamo un campionamento limitato con delle biopsie sugli organi parenchimali come cuore, polmoni e fegato. In questo modo riusciamo a ottenere tessuto sufficiente per valutare gli effetti della malattia a livello microscopico, che ci permetterà di capire in futuro come agisce il virus quando si diffonde all’interno del corpo".

Dall'inizio dell’emergenza, Gianatti, assieme al suo team, ha eseguito una cinquantina di esami in ambito autoptico. Ma, avverte, "è un numero in divenire, visto che l’onda lunga delle conseguenze mortali della malattia perdurerà per un po'". Il medico, assieme a tutto il personale sanitario dell’ospedale, sin da subito si è rimboccato le maniche, mettendosi in campo a 360 gradi: “Inizialmente - spiega - abbiamo dato disponibilità alla rotazione nel reparto Covid, quindi in ambito clinico, pur non essendo specialisti dedicati all’attività clinica. Tutti abbiamo risposto alla chiamata dando un piccolo contributo in reparto, ma presto abbiamo capito che il nostro apporto specialistico era più importante, quindi abbiamo creato una mini task force dedicata a questa attività”.

Nonostante la situazione drammatica, Gianatti cerca di tenere duro: "Essendo a contatto con l’evento terminale peggiore - osserva - non abbiamo il riscontro dell’aspetto umano della sofferenza dei pazienti, noi ne vediamo la conclusione. Nella prima fase è stato molto shocking perché alcune immagini del quartiere mortuario ci hanno ricordato questi scenari bellici e non eravamo abituati. Penso alle carovane di militari che trasportavano le salme, dietro c’è stato un impegno del quartiere mortuario eroico. In alcuni casi si è dovuto riciclare un tipo di attività alla quale non eravamo abituati, come l’accelerazione della parte burocratica, l’apertura di spazi dedicati all’interno delle celle frigorifere, la necessità di ridurre i tempi di attesa perché le esequie erano bloccate. Ma questa azienda è riuscita ad armarsi fino ai denti anche da questo punto di vista". Psicologicamente il suo team sta reggendo bene l'urto ma "al termine di questa vicenda - avverte - in un momento di tranquillità, potrebbero esserci degli effetti post traumatici inesplorati che andranno vigilati”.

Molti dei suoi colleghi, intanto, sono morti combattendo in prima linea contro questo nemico invisibile. Come il medico legale deceduto ieri a Brescia. L'ultimo di una lunga lista. "Se temo di andare a lavoro? - dice -. Abbiamo ricevuto indicazioni molto precise sulla necessità e sulle modalità con le quale approcciarsi ai casi sospetti, sono stati fatti dei percorsi e date indicazioni sui dispositivi di protezione individuale. Pur essendoci del rischio, ritengo che per degli specialisti ospedalieri il rispetto di queste norme limitino tantissimo la possibilità del contagio. Questo è il nostro lavoro: affrontare la malattia in situazioni di rischio. Non ci si può esimere e purtroppo di eventi negativi possono esserci. Vedendo la dedizione con cui tutti gli specialisti dell’ospedale hanno svolto il proprio lavoro, viene meno qualsiasi reticenza”.

Gianatti è fiducioso che il lavoro che sta svolgendo l’anatomia patologica che dirige, grazie alla raccolta di prelievi post mortem, potrà essere molto formativa per le riflessioni che si potranno fare in futuro sugli effetti della malattia sugli organi. “Non nascondo che l’attività stia creando un grosso interesse dal punto di vista anatomo-clinico - spiega - perché stiamo costruendo un patrimonio di informazioni quasi unico al mondo. Anche dall’esperienza cinese non ci sono dati pubblicati in letteratura scientifica su quel tipo di approccio alla malattia, quindi è un po’ ritornare alla storia della medicina in cui, dallo studio autoptico, si sono costruite inizialmente le informazioni relative alle caratteristiche della malattia”.

Ma chi è che decide quando e se effettuare un’autopsia su un caso sospetto Codiv-19? "È stata emessa una raccomandazione dalla nostra società scientifica - afferma Gianatti - che ha recepito le indicazioni del Cdc di Atalanta, che a sua volta ha dato indicazioni molto restrittive circa le modalità con le quali eseguire questi riscontri. Se però si va a studiare nel dettaglio la documentazione e se si fa riferimento alla documentazione dell’Oms, i parametri richiesti sono assolti dalla struttura e dalla modalità organizzativa che noi abbiamo in questa azienda. Per cui, nel momento in cui c’è stato il coinvolgimento con i colleghi medici abbiamo ritenuto opportuno, con le dovute cautele, aderire a questa attività autoptica senza pensarci molto”.

C’è anche un’altra cosa alla quale Gianatti, non pensa molto quando toglie il camice: le cattive notizie. “Ho due figli di 21 e 13 anni bloccati in casa - dice - io filtro tutto, cercando di riportare solo le notizie più incoraggianti, tanto sono già informati di quello che sta avvenendo. Almeno in casa cerchiamo di limitare una prosecuzione del lavoro”.

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