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I dipendenti stakanovisti? Pochi e terrorizzati dal licenziamento

21 settembre 2015 | 11.57
LETTURA: 4 minuti

I dipendenti stakanovisti? Pochi e terrorizzati dal licenziamento

"I dipendenti stakanovisti sono rimasti in pochi. Certo c'è qualcuno che, dovendo fare i conti con qualche problema personale si butta sul lavoro, ma è un'eccezione". Lo dice a Labitalia Alfio Cascioli, psicologo del lavoro e uno dei massimi esperti in materia di strategie motivazionali in relazione alla sentenza della Cassazione che prevede che il datore di lavoro non debba risarcire i danni da stress per il superlavoro di cui si è fatto carico il dipendente se manca la prova che sia l’azienda a imporgli una mole di compiti eccessiva.

"Oggi nel mondo del lavoro -spiega- regna un clima di insicurezza, anzi di terrore che si venga licenziati, talmente alto che spinge il dipendente a stare comunque sul posto di lavoro per ore, anche senza fare nulla, per la paura di non farcela, indotta spesso dal mobbing".

"Il discorso è sempre il solito -chiarisce Cascioli- in Italia si avverte la mancanza di una disciplina sul mobbing. In ufficio diventa quindi complicato, spesso impossibile, dimostrare di essere vittima di mobbing da parte sia del datore di lavoro sia dei colleghi".

"C'è bisogno -ricorda- non solo di un'accurata e specifica documentazione medica che attesti la causa del malessere fisico, ma anche di testimoni che avvalorino la tesi della presenza di mobbing. Il lavoratore si trova così sempre più stretto da un circolo mortale da cui non sa come uscirne se non licenziandosi, oppure appunto lavorando per ore e ore".

Secondo la Cassazione "se il dipendente è, per sua natura, stakanovista ed accentratore, ed è lui stesso a voler farsi carico di compiti e responsabilità altrui per una sua esclusiva scelta di ordine morale non può chiedere poi alcun indennizzo per il conseguente affanno e usura".

E', infatti, il dipendente a doversi fare carico di dimostrare al giudice che il superlavoro gli è stato imposto dall’azienda: ordini di servizio, testimoni, email: qualsiasi prova è buona per convincere il giudice. Stabilisce infatti la Corte che tutte le volte in cui il lavoratore lamenti una lesione alla salute, egli deve dimostrare: il danno, la nocività dell’ambiente di lavoro; che fra il danno e la nocività dell’ambiente di lavoro vi sia una stretta dipendenza di causa-effetto (i giuristi la chiamano 'rapporto di causalità' o anche 'nesso eziologico').

Una volta che il dipendente abbia provato tali tre circostanze, spetta al datore dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per evitare il verificarsi del danno, in modo da escludere che possa essergli addebitabile l’inosservanza degli obblighi di sicurezza sul lavoro.

Il datore, infatti, è tenuto a garantire la “sicurezza sul lavoro”, intesa non solo con riferimento ai macchinari e agli impianti, ma anche come prevenzione per possibili danni alla salute derivanti dallo stress lavorativo e dal carico eccessivo di mansioni.

Se, invece, emerge che il datore non ha mai preteso straordinari oltre i limiti di legge, né il raggiungimento di determinati obiettivi al di fuori delle possibilità umane, o non è stata mai ricevuta alcuna diffida con cui si addita il dipendente come personalmente responsabile per le disfunzioni nel servizio assegnatogli, il datore di lavoratore è libero da ogni responsabilità conseguente all’eccessivo carico di lavoro.

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